La vicenda del drammaturgo Diego Fabbri, nato a Forlì nel 1911 e morto a Riccione nell’80, è singolare: in vita, un successo teatrale stabile e continuo che ne ha fatto l’autore italiano più rappresentato sui palcoscenici internazionali dopo Goldoni e Pirandello; dopo la scomparsa, un oblio diffuso, tanto nella critica letteraria quanto nei cartelloni teatrali. Un silenzio che, se da un lato si spiega con una certa diffidenza ideologica (Fabbri era dichiaratamente cattolico), dall’altro non deve indurre a considerare questo silenzio una realtà immutabile. Speriamo quindi di tornare a occuparci di un autore che – spesso in posizione solitaria nei suoi anni – ha voluto mettere al centro del proprio discorso artistico la questione cristiana, considerandola non un semplice argomento di discussione, ma il punto focale, il luogo di sintesi di qualsiasi dibattito che avesse al centro l’uomo. 



Non potendo in una sola volta affrontare una carrellata sull’intera opera di Fabbri, vogliamo soffermarci oggi su un’opera, una delle sue prime, scritta nel 1946 e messa in scena a Milano nel ’50, dal titolo Inquisizione. Trattandosi di un testo noto perlopiù solo agli studiosi, possiamo permetterci per una volta il piacere di raccontarla. La struttura di Inquisizione è, peraltro, molto semplice, quasi simmetrica. Ambientato in uno sperduto santuario di montagna, quattro personaggi: l’Abbate (il cui nome non viene mai pronunciato); Sergio, un giovane e inquieto sacerdote suo coadiutore; Renato, un docente universitario, e sua moglie Angela. Questi ultimi arrivano al santuario in preda a una profonda e diversa inquietudine: verremo infatti a sapere che Renato, in gioventù, voleva diventare sacerdote. Fu Angela, innamorata di lui, a cercare d’impedirglielo: prima con la seduzione erotica, poi con il ricatto morale del suicidio. Arrivano al santuario col desiderio di un chiarimento; e vi trovano un altro uomo in crisi, Sergio, ribelle verso la Chiesa e sul punto di lasciare il santuario e abbandonare il sacerdozio. Vigile, burbero e taciturno è invece l’Abbate, con le mani nascoste nella tonaca a sgranare il suo rosario. 



I drammi individuali, incrociati e messi a reazione, esplodono, venendo alla luce per quello che sono: una richiesta d’aiuto, il desiderio di percorrere una vera strada, di compiersi in un destino, di accettare la croce della propria imperfezione e di quella altrui. Ma, soprattutto – ed è su questo che il centro del dramma poggia, e verso cui precipita – l’urgenza di imparare ad amare: di realmente capire come amare gli uomini. Fabbri introduce qui il sentimento di una mancanza – quella di non sapere come amare – che tanto la sua epoca quanto la nostra rifugge continuamente. Ovunque, nella cultura e nell’arte, perfino nella pubblicità e nella politica – oggi come allora – l’amore è celebrato come valore assoluto e indiscutibilmente positivo. Pochi sono quelli che pongono invece la questione di cosa effettivamente sia l’amore, e di come davvero si possa amare – amare realmente, senza distruggere, senza annientare l’altro, affermandolo con tenerezza pari a quella che si vorrebbe per sé. 



Fabbri, in Inquisizione, ci fa intravedere tutta la provvisorietà e anche la violenza di questo tentativo: Angela confessa infatti che, in passato, quando ha capito che Renato le sarebbe “sfuggito”, avendo deciso finalmente di entrare in seminario, ha tentato di uccidere se stessa e lui. Così lei dichiara: «Io sentivo che Renato non mi apparteneva più… Perché – l’avevo capito – era nelle mani… dell’Altro. Era interamente prigioniero di Dio. E allora mi prese una selvaggia volontà di strapparlo anche all’Altro; non timore, ma un impulso smisurato, gigantesco, totale di combattere contro Dio stesso… Io sento un sordo rancore – un odio verso questo Dio che non ha compassione di me, e me lo strappa… e continua a strapparmelo ancora… Io lo voglio osteggiare con tutti i mezzi, con tutte le mie forze, io, io, da sola, una donna, io». 

L’amore, affermando se stesso, si era capovolto in violenza; e solo una miracolosa casualità aveva impedito la morte di entrambi. Il matrimonio fra i due era stato, paradossalmente, non il compimento dell’amore ma la resa ad esso, una resa simile a una sconfitta: un cedere ad un’incapacità di amare che si riconosce come definitiva. C’è nel rapporto fra Renato e Angela uno scandalo, una lotta, fra due modi d’amare, due possibilità dell’amore, e questo scandalo viene individuato nella persona di Cristo. È Angela stessa ad affermarlo, con rabbia: «Vuoi sapere quel che ci divide? Tu non lo sai… ma io sì! Ci hai girato attorno, attorno… Proprio l’amore di Cristo. Io non amo Cristo. Per me Cristo non c’è, non c’è stato… per me Cristo non è venuto… non è passato… non ha lasciato traccia… e invece tu l’adori. Il nostro nemico è Lui». 

Sarà infine l’Abbate a dire, in un grande monologo finale, una parola definitiva, che non è una predica bensì la domanda, la necessità di un evento: «Si tratta di scegliersi un’altra compagnia. Stringi stringi, il problema di tutta la vita, per tutti, è solo questo: cercarsi, scegliersi una compagnia. (…) Una donna – dei figli – degli allievi – o la scienza, o l’arte – o il popolo da difendere… l’umanità intera da trasformare! Che credete! È tutta sete di compagnia. Eppure, a un certo momento: macché! La bocca amara, lo scontento, il vuoto. Ci si accorge di essersi sbagliati. Non era quella la cosa importante che volevamo fare… La cosa importante c’è sfuggita, si è come camuffata e c’è sfuggita… (…) È che noi pretendiamo di cambiarci. Mi capite? Uno vuol cambiar l’altro e l’altro l’altro… e così via… L’origine di tutto il male è qui. Questa pretesa, questo diritto alla tirannia che crediamo d’avere… Il miracolo è tutto qui: riuscire ad accettarci così come siamo. (…) Questo ci fa paura: l’abisso immutabile di quel che siamo – e il coraggio di accettarci così come siamo… Se non abbiamo questo coraggio, questa forza io vi dico che è la tirannia, la guerra eterna… − Ci vuole un miracolo, ci vuole! Chiamare tra noi Colui che ci ha fatti così. Solamente Lui può accettarci così come siamo perché è Lui che ci ha fatti così. Lui può amarci». 

E dopo questo lungo appello, alla domanda di Cristo, l’Abbate come un sospiro aggiunge: «Ecco rinascere la compagnia». La compagnia, come l’Abbate la intende, è appunto una nuova, sovversiva possibilità dell’amore: un amore non come violento possesso, come tentativo tragico, ma come luogo dell’accadimento, spontanea reazione e innamorata risposta che scaturisce dal miracolo. Un miracolo che, proprio perché così necessario per vivere, per non morire, per non scannarsi, non si può fare a meno di implorare in ginocchio.