Meglio vivere come se Dio ci fosse, o come se Dio non ci fosse? È questo uno dei leitmotiv della querelle che sottende ogni discussione circa il rapporto tra la conoscenza della realtà e la fede in un essere sovrannaturale, o come si dice più brevemente, tra scienza e fede. 

Come giustamente rileva Amir Aczel nell’intervista concessa a ilsussidiario.net il 26 giugno, a margine del suo nuovo libro su Perché la scienza non confuta Dio, non è possibile giungere a una negazione dell’esistenza di Dio, semplicemente per il fatto che alcune teorie della scienza matematica attuale e della meccanica quantistica non sono create dall’uomo, ma soltanto scoperte. E questo non ci dice solo della loro origine eterologa rispetto all’uomo, ma impone allo stesso scienziato che indaga tali teorie il compito di interrogarsi sulla loro origine, avendo però ben chiaro il fatto che la scienza – nel suo complesso – non può mai giungere a provare né l’esistenza di Dio, né la sua non esistenza. 



Stiano dunque attenti coloro che – all’interno del movimento denominato “New Atheist” – pensano di utilizzare le ultime acquisizioni della biologia e della neurologia per dimostrare scientificamente che Dio non esiste. Ma, allo stesso modo, siano cauti tutti coloro che pensano sia possibile dimostrare l’esistenza di Dio sulla base delle attuali limitazioni della scienza: che non capiti quello che già Agostino d’Ippona indicava come possibile errore per quei teologi che avessero perseguito un’interpretazione della Sacra Scrittura contro l’evidenza di fatti o scoperte scientifiche incontestabili, indicando nella virtù della prudenza l’unico atteggiamento consono all’uomo di scienza. E, da questo punto di vista, il riferimento a Galileo (indicato al termine dell’intervista, dallo stesso Aczel) rispetto alla contrapposizione tra scienza e fede, non è del tutto adeguato e legittimo. 



Lo scienziato pisano, come è noto, non reputa che vi possa essere una disparità tra verità scientifiche e verità della fede, e neanche che vi sia “un’alternativa tra il fatto di credere e il desiderio di scoprire le regole della natura”. In un testo poco letto della vasta letteratura galileiana, pubblicato da Antonio Favaro all’interno delle Considerazioni sul copernicanesimo, Galileo così si esprimeva: “Quanto al render false le Scritture, ciò non sarà né sarà mai nell’intenzione delli astronomi cattolici, quali siamo noi; anzi nostra opinione è che le Scritture benissimo concordino con le verità naturali dimostrate”. È, infatti un’esigenza propria del metodo di Galileo quella di non porre distinzioni tra l’approccio scientifico alle questioni naturali e la riflessione teologica sulla natura: le due vie con cui si conosce il reale non possono mai contraddirsi, sebbene procedano secondo modalità di trasmissione differenti. Altro che porre alternative. 



Del resto, anche colui che più di ogni altro ha cercato di incarnare lo spirito illuministico del “etsi Deus non daretur”, Friedrich Nietzsche, scriveva: “temo che non ci libereremo di Dio fintantoché crederemo alla grammatica”, cioè fin quando crederemo a una realtà possibile, di fronte a noi, che ci chiama e ci interpella. 

Ma allora, ciò che è in gioco non è tanto l’esistenza di una fede in un essere sovrannaturale, quanto la sopravvivenza del mondo e della realtà, un luogo in cui poterci riconoscere parte di una comunità. Altrimenti saremo costretti a vivere come “bestie astute” che conoscono solo i propri stati soggettivi, senza alcuna verità su di sé e il mondo attorno, come vorrebbe la nuova filosofia pragmatista di Richard Rorty, a cui s’ispira gran parte del movimento “New Atheist”. 

E tuttavia, smarrendo la verità, non si perde l’idea di Dio, ma l’intero complesso della conoscenza, anche di tipo scientifico. Alla conoscenza, Rorty preferisce la speranza per un mondo migliore, senza però mai dirci in cosa consisterebbe tale speranza, se non nel successo dato dai nostri atti, dalle nostre capacità di uomini senza alcuna relazione: non più persone, ma cose animate − bestie appunto − esposte al potere. E se invece vivessimo “veluti si Deus daretur”, come già consigliava Pascal ai suoi amici non credenti?