“Non son chi fui: perì di me gran parte”: così recita, foscolianamente, e, annota l’autore, “in assoluta malafede”, uno dei personaggi singolarmente più azzeccati di Roderick Duddle, il nuovo romanzo di Michele Mari (Einaudi, 2014), suor Allison, fascinoso “malfrodito”, maliardo e amorale (non per nulla grande lettore di Machiavelli) per usare la terminologia di una delle vittime delle sue grazie, il perfido Jones. 



Questo dotto gioco attraverso nomi, maschere, giochi fra omonimia e pseudonimia, senza che mai sia inficiata la freschezza della narrazione, fa da cornice a Roderick Duddle fin dall’incipit: “In verità…io…mi chiamo Michele Mari”, richiamato, a mo’ di Ringkomposition, dal sogno del protagonista nella conclusione (p. 480):



Corse qua e là a caso, finché si imbattè in un vecchio che assomigliava a Jack. O era Jack? Andò da lui, ma l’uomo non sembrò riconoscerlo. Stava spazzando le foglie per strada, con movimenti secchi e rabbiosi.
“Dove siamo?”, gli chiese Roderick. “Come si chiama questa città?”
“Questa città”, rispose lo spazzino, “si chiama Milano, e tu ti chiami Michele Mari”.
“No! Io mi chiamo Roderick Duddle!”
“Ti conosco io, non sei il figlio di Iela ed Enzo Mari?”
“No! Mia mamma era Jenny la Magrae, e mio padre non l’ho mai conosciuto”.
E come campi, bamboccio?”
“Faccio il mozzo, devo imbarcarmi sulla Rebecca…“.
“Balle! Tu lavori in università, e ti consiglio di sbrigarti, perché i corsi stanno per cominciare”.
“Nooo! Voglio essere Roderick! Voglio essere Roderick!”.

E se magari anche noi lettori non vorremmo forse proprio essere Roderick – dato il cumulo non solo di avventure, ma anche di sventure che gli rovina addosso – certo vorremmo avere un poco della sua leggerezza, della sua consapevolezza che ancora tutto nell’esistenza è da scrivere, da definire, da incontrare e da conoscere, in una parola, da vivere.



La storia dell’orfanello cresciuto in miseria ma erede, a sua insaputa, di una vasta fortuna, e per questo ricercato, perseguitato, oggetto di innumerevoli tentativi di truffa, rapimento, omicidio, sostituzioni di identità, etc. è antica quanto il mondo, ma viene qui speziata e sfumata con un’ironia che rende la lettura stessa del romanzo, da parte del sinottico lettore (p. 341, poco prima definito “terragno”, e poi “improvvido”, “sonnacchioso”, etc.) un’avventura mentale, connotata da un piacere intellettuale che raramente è dato ricavare dai romanzi italiani – e non solo – contemporanei. Se tanta narrativa ci insegna a soffrire, ci dice che dobbiamo soffrire, ci spiega come e perché dobbiamo – dovremmo – farlo, ci illustra i thousand natural shocks that flesh is heir to (Hamlet III, 1), in una sorta di maldestra riproposizione del credo eschileo per cui pathei mathos, il romanzo di Mari rappresenta una ventata di piacevolissima aria fresca: nunc demum redit animus.

Singolare omaggio ai feuilleton, a Dickens, in primis, ma anche allo Stevenson marinaresco e piratesco, con strizzate d’occhio al Melville di Moby Dick, Roderick Duddle, con un’intensità che credo sconosciuta al 99 per cento dei romanzi contemporanei, riscopre e comunica quello che troppo spesso lo scrittore che si pretende sofisticato, intellettuale, articolato, dimentica: il piacere di narrare; il che diventa, per noi, specularmente, il piacere di leggere. E davvero, raramente, negli ultimi anni, mi è capitato di leggere con più divertimento, coinvolgimento, leggerezza (dotta, per carità, ma sempre leggerezza) un racconto. La storia dell’orfano Roderick, cresciuto nell’ambiente a dir poco equivoco dell’Oca Rossa – tetra mescita di vini con annesso bordello – erede di una fortuna considerevole, viene accompagnata costantemente da interventi della voce narrante, che potremmo definire “di riflessione amorale” (cfr. p. 238, a proposito di “una canaglia, ingloriosamente ammazzat(a) come un coniglio, quando avrebbe meritato un ampio concorso di folla alla sua esecuzione capitale”; ma pensiamo anche agli esilaranti bigliettini amorosi inviati da Jones a suor Allison). 

Lo sguardo ironico e scettico del narratore, in un ideale perdersi e ritrovarsi dei percorsi narrativi, qui materialmente esemplificato dai pellegrinaggi di Roderick, di Jack, di Salamoia, di Jones, di Havelock dalla costa alla città e viceversa, dall’Oca Rossa al palazzo dei Pemberton al monastero, accompagna la trama sempre più intricata sino allo scioglimento e al non scontato lieto fine, se così possiamo definirlo. E il sugo di tutta la storia, ispirato al moraleggiante principio in forza del quale nel finale il lettore dovrebbe – potrebbe – tirando un sospiro di sollievo, è pensare “questo è il fin di chi fa il mal”? Troppo vincente è fino all’ultimo la bella e perversa Allison, troppo clemente la fine della Rossa e di Jones per credere che Mari ai suoi personaggi non sia un po’ affezionato (e noi con lui).

Il linguaggio di Mari poeta (cfr. le Cento poesie d’amore a Ladyhawke, Einaudi, 2007) può sembrare apparentemente impregnato di quotidianità, dolorosamente e realisticamente colloquiale, narrativo, quasi prosastico, intriso di lessico situazioni espressioni proverbi filastrocche citazioni diventate luoghi comuni, modi di dire tratti dalla banalità dell’esperienza quotidiana (come Fanny Ardant diceva nella Signora della porta accanto: le canzonette sono stupide, e più sono stupide, più dicono la verità); invece, il linguaggio della prosa di Mari è ricco di accensioni liriche, fiammeggiantemente poetico, ora aulico, ora ironicamente sogghignante, alto, raffinatissimo. Così si attua la naturale propensione di Mari al pastiche, grondante una letterarietà che non è sfoggio esornativo, ma strizzata d’occhio al lettore, richiesta di complicità sulle impervie e ramificate vie della letteratura, che tutto sa mescolare, l’alto e il basso, la lingua sublime di fine Settecento-inizio Ottocento (il periodo d’elezione della terza identità di Mari, quella di sottile accademico) con i tòpoi della letteratura di consumo (l’horror, la licantropia), al centro, attraverso le immaginarie vicende di casa Leopardi, del geniale Io venia pien d’angoscia a rimirarti (rist. Cavallo di Ferro 2011). 

Di tutta la narrativa di Mari, forse, continueremo a considerare summa e vertice insuperato e forse insuperabile i meravigliosi racconti di Euridice aveva un cane (leggere per credere almeno il primo, I palloni del signor Kurz, memoria di un’infanzia in collegio); ma Roderick Duddle è un’autentica avventura intellettuale: l’avventura della letteratura.