“Che cos’è la verità?” La domanda di Pilato contiene tutto lo scetticismo di un’epoca – il primo secolo dell’età imperiale – che ha sostituito il moralismo alla più profonda ricerca dell’essere. Ma in altre epoche la domanda è stata posta con ansia inquieta, ed ha portato con sé altre domande: la verità è conoscibile? chi ne è depositario? è modificabile? vale la pena di conoscerla? e, soprattutto, è positiva?
Su queste domande il poeta Sofocle ha costruito nel quinto secolo a.C. le due tragedie dedicate al mito di Edipo: la prima e più famosa, Edipo Re, al culmine della sua creazione artistica e di un percorso religioso a ritroso che l’ha portato a respingere tutte le certezze acquisite nelle generazioni precedenti; la seconda, Edipo a Colono, circa venticinque anni più tardi, al termine di una lunghissima vita, tanto che non ha potuto vederla in scena.
Dalla tradizione, divenuta letteratura già in Omero, Sofocle eredita una delle storie più drammatiche: un giovane, ignaro delle sue origini, uccide per errore il padre e diviene re al suo posto sposando la madre, come premio per aver liberato la città da un mostro. Ma la vicenda, che potrebbe essere solo il frutto di sventurate coincidenze, è percorsa continuamente dalle questioni che abbiamo indicato.
Sia Laio e Giocasta, i genitori di Edipo, sia Edipo stesso conoscono la verità in anticipo attraverso l’oracolo delfico e mettono in opera una serie di azioni per modificarla: i genitori abbandonando il neonato con l’intenzione che muoia prima di crescere per un futuro terribile, il giovane fuggendo dai genitori adottivi che crede siano le sue potenziali vittime. Solo che ogni azione rimette in gioco il compiersi dell’oracolo: il bambino viene salvato, il giovane ritorna nella sua patria d’origine.
Non c’è, nell’interpretazione di Sofocle, nessuna idea di colpa volontaria che in qualche modo giustifichi gli eventi: altri rendono il mito più accettabile introducendo nell’oracolo dato ai genitori di Edipo un divieto a concepire figli (così Euripide, così probabilmente – in un’opera perduta – anche Eschilo), ma Sofocle trasforma l’oracolo nella comunicazione di eventi certi, immodificabili, oscuri sia nelle motivazioni, sia, ultimamente, nella responsabilità di simili decisioni. Il destino – la moira di Omero, Solone, Eschilo – non è in Sofocle così chiaramente definito nel suo aspetto di giustizia distributiva, di parte di un ordine bello; neppure risulta una realtà superiore agli dèi e garantita imparzialmente da loro. Così l’oracolo, oltre che immodificabile, resta insensato, tanto che nel corso della tragedia sia Giocasta, sia Edipo stesso sia il Coro, così inizialmente devoto, mettono in dubbio la sua credibilità, l’onestà dei profeti o la loro possibilità di sapere la verità: Edipo rinfaccia all’indovino Tiresia la cecità, contrapposta alla propria capacità di conoscere con l’intelligenza (“conoscere” in greco è connesso col verbo “vedere”); Giocasta fa l’elogio del vivere inconsapevole: “perché dovrebbe temere un uomo su cui domina il caso e non ha chiara previsione di nulla? il meglio è vivere alla ventura, come si può“.
E il Coro di Tebani invoca Zeus perché si accorga che la fede va in rovina: “non andrò più con venerazione a Delfi, l’intangibile ombelico della terra, né al tempio di Abe, né ad Olimpia“.
Quando tutto è certo, e gli oracoli si sono compiuti, resta un interrogativo. Tiresia sapeva e ha taciuto per molti anni, Giocasta, la prima a capire, supplica Edipo di non indagare oltre, di non voler sapere; Edipo, che prosegue nella sua indagine fino a conoscere tutto l’orrore, si acceca per non vedere, simbolicamente per non sapere più nulla. Al cognato che gli propone di interrogare ancora gli oracoli, risponde negativamente: “il mio destino, dove andrà, vada pure“. Dunque al termine della tragedia la domanda sulla verità diviene questa: è un bene sapere? E vi si aggiungono altre domande: esiste una responsabilità degli uomini? esiste la giustizia divina? è possibile dire un uomo felice?
Si deve alla fama dell’Edipo Re, tante volte imitato, studiato e interpretato, l’idea così diffusa che la sua disperata insensatezza rappresenti tutto il pensiero greco. Si dimentica così che Sofocle l’ha vissuto come una tappa, e che ha chiuso la sua vita riprendendo la storia nell’Edipo a Colono. Nei molti anni intercorsi il poeta e il suo personaggio sono giunti ad una consapevolezza, mutuata dal più giovane poeta Euripide: perché nelle azioni terribili ci sia colpa bisogna che ci sia la coscienza di commetterla. Questo il vecchio mendicante cieco dichiara al Coro di anziani del sobborgo di Atene, moralisti bigotti che vorrebbero respingerlo con orrore per ciò che ha involontariamente commesso; e il loro re Teseo accetta l’idea nuova dell’innocenza del proscritto, e l’accoglie con l’ospitalità libera e cordiale che sempre contraddistingue Atene nelle opere dei suoi figli.
Ma c’è altro. Gli dèi hanno di nuovo parlato: il luogo in cui Edipo sceglierà di terminare la vita sarà per sempre sacro e protetto. Non è facile per chi ha respinto gli oracoli e la conoscenza che ne deriva riprendere una fiducia, tanto più in una promessa positiva: “ora che non sono più, proprio ora sono un uomo?“. Ci vuole un lungo percorso doloroso per arrivare ad accettare di conoscere la parola divina e di credervi: ma quando succede, il vecchio cieco si avvia con sicurezza al luogo in cui dovrà misteriosamente scomparire “come uno straordinario miracolo“.
Il Coro, che ha acquisito anch’esso una nuova maturità, introduce in una preghiera la timida speranza nella giustizia divina: “dopo che tanti dolori sono sopraggiunti anche inutilmente, un dio giusto potrebbe farlo ridiventare grande“. E alle figlie di Edipo dà il conforto della certezza che la felicità è possibile: “poiché felicemente ha terminato la vita, care, cessate il lamento“.