Nel 1965, attendendo l’arresto imminente, Andrej Sinjavskij, all’epoca affermato studioso di letteratura e scrittore clandestino con lo pseudonimo di Abram Terz, annota una serie di appunti occasionali, privi di disegno e sforzo compositivo: “volevo lasciare di me stesso, di Abram Terz, almeno questi rapidi appunti, capaci di definire i punti estremi della mia coscienza, quasi le sue coordinate, le coordinate entro le quali ero vissuto e avevo lavorato”. Riuscirà a farli arrivare a Parigi, dove verranno pubblicati l’anno seguente, mentre il loro autore scontava la propria condanna al lager (lì nasceranno i suoi capolavori All’ombra di Gogol’ ? Passeggiate con Puškin). A un decennio di distanza, nell’esilio parigino, Sinjavskij giudicava questi Pensieri improvvisi i più inspiegabili tra i propri scritti, e li definiva “una ricerca spasmodica dell’aria per respirare”. Risuona in queste parole l’eco della celebre frase con cui nel febbraio 1921 Aleksandr Blok aveva spiegato la fine di Puškin (“Fu ucciso dalla mancanza d’aria. E con lui moriva la sua cultura”), anticipando al contempo le ragioni della propria (sarebbe infatti morto di lì a poco).



Oggi Jaca Book ripubblica i Pensieri improvvisi di Sinjavskij-Terz, apparsi per la prima volta in italiano nel 1967, insieme con una scelta degli Ultimi pensieri, inediti in italiano, composti trent’anni più tardi e usciti postumi nel 1998 (Sinjavskij, Pensieri improvvisi con Ultimi pensieri, a cura di Sergio Rapetti, pp. 128, 10 euro).



Accomuna questi pensieri, nati in epoche e luoghi tanto diversi, il genere letterario cui appartengono (l’aforisma, nel quale Sinjavskij eccelle), e l’essere stati composti al cospetto della morte – quella temuta, mentre incombeva l’arresto nella Mosca del 1965, e quella che sarebbe poi sopraggiunta, dopo una lunga malattia, nel 1997, a Parigi. 

Il tema dominante compare nei Pensieri improvvisi sin dal secondo aforisma: “Che coraggio avete di temere la morte? … Suvvia smettetela di tremare!… Animo! Avanti! In marcia!”. Sempre restio a parlare della propria esperienza religiosa, come osserva Rapetti nella Postfazione – “non sono uno scrittore religioso, non sono un predicatore, non sono un moralista” affermerà nel 1980 – nell’Urss dei primi anni Sessanta, scrivendo per il cassetto Sinjavskij afferma che “solo nel cristianesimo c’è un contatto diretto con la morte”. Il cristianesimo “è la religione della più grande speranza, nata dalla disperazione; è la religione della purezza che si afferma nella coscienza esasperata del peccatore; la religione della resurrezione della carne tra il lezzo della corruzione”. 



Per Sinjavskij il cristiano ha un’unica arma, la prontezza a morire, “perché il terrore della morte non va eliminato, ma sviluppato fino a diventare forza capace di aprire una breccia nel sepolcro e balzare dall’altro lato”. 

Il cristianesimo, infatti, rivela all’uomo la propria libertà profonda e insopprimibile: “Non si tratta di superare la natura, ma di sostituirla con un’altra natura a noi ignota, che insegna a essere malati, a patire, a morire e libera della servitù del terrore e dell’odio”. 

Al Sinjavskij degli Ultimi pensieri apparirà impossibile uscire da questa servitù, dall’inestricabile intreccio delle reciproche offese umane che conduce all’odio: “Cristo ha spezzato l’intreccio dicendo: Amate coloro che vi odiano (e tornerà a vostro vantaggio). Applicandolo alla mia pratica personale sarei portato a dire: sì! Ma non trovo il tempo, né mi bastano le forze”. È radicalmente mutato, in effetti, il punto di vista dell’autore, che nel primo aforisma degli Ultimi pensieri annuncia: “Chiedo scusa a tutti: sono morto”.

Il tema dell’arte – “proprio ciò per cui ogni cosa fu intrapresa”, e che costò allo scrittore la condanna al lager – è quasi del tutto assente, lo osservava lo stesso Sinjavskij nel 1976, nei Pensieri improvvisi. Domina invece – anche in forma polemica, e coi toni dell’invettiva, rivolta in particolare contro Solženicyn – negli Ultimi pensieri (“cosa credete che faccia lo scrittore nella sua letteratura, se non regolare i conti con il prossimo?”; dove diventa difesa, appassionata fino al turpiloquio, del proprio lavoro: “Signori, continuerò nondimeno a provarci! Da molto tempo non m’è rimasto nient’altro di più valido e grande (scusate l’enfasi) di questo lavoro creativo”.

Nei Pensieri improvvisi l’unico accenno all’arte è ricondotto al cristianesimo. Sinjavskij-Terz si scaglia contro il genio “pieno di sé”, contro il “culto dei geni, iniziato durante il Rinascimento, e il disinteresse della santità, che risplende sempre non della sua, ma della Tua luce, o Signore”. Al genio – invenzione rinascimentale – contrappone Cristo: “Il Cristo amò quelli che erano ‘nessuno’. Ed Egli stesso non era forse ‘Nessuno’? come uomo dotato di personalità Egli è anzi inespressivo (e perciò inesprimibile) e, in ogni modo, tutt’altro che un originale. La frase ‘personalità di Gesù Cristo’ suona come una bestemmia. La sua è una personalità a rovescio, negativa. Non Lo chiameresti ‘un genio'”. Il genio sta all’inferno, e corre incessantemente da un angolo all’altro per dimostrare a tutti che è pieno di talento. Quanto a Sinjavskij, lo leggiamo negli Ultimi pensieri, scriveva “sul fondo, morendo e ascendendo verso il cielo”.