La lettera che Papa Francesco ha indirizzato al Congresso internazionale dell’Associazione di Diritto Penale e dibattuta su queste pagine è di particolare importanza e per alcuni versi sorprendente. Il Pontefice, con il suo solito linguaggio diretto e senza astratti bizantinismi, si schiera in modo deciso a fianco della tradizione giuridica che considero più avanzata, quella che ha in Cesare Beccaria il suo punto di riferimento. Quest’anno peraltro si celebrano i 250 anni dalla pubblicazione del testo più importante di Beccaria: Dei delitti e delle pene



Il Pontefice segnala tre elementi costanti della tradizione cristiana: la soddisfazione o la riparazione del danno, la confessione e la contrizione. Gli ultimi due sono elementi direttamente legati alla fede e al rapporto del singolo con Dio e con la Chiesa. Il primo elemento riguarda più direttamente le leggi. Papa Francesco afferma con nettezza quanto sia un errore “identificare la riparazione solo con il castigo, confondere la giustizia con la vendetta” e aggiunge che “non si pone rimedio a un occhio o a un dente rompendone un altro”. A queste conclusioni la Chiesa è arrivata gradualmente nel tempo ed è lo stesso Pontefice che lo segnala scrivendo che “il Signore ha poco a poco insegnato al suo popolo che esiste un’asimmetria necessaria tra il delitto e la pena, si tratta di rendere giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore”.  



Sono parole di grande rilevanza che sgombrano per sempre il campo da equivoci o fraintendimenti anche perché il Papa ribadisce che “l’inasprimento delle pene non risolve i problemi sociali e non riesce neppure a diminuire i tassi di criminalità”. Immediatamente ho pensato al celebre passaggio di Beccaria sul fatto che “uno dei più gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un’utile virtù, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro più terribile, unito colla speranza dell’impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi umani”. 



Certezza della pena ma non necessariamente carceraria: pene principali, irrogabili fin dal primo grado per i reati di non grave allarme sociale, quali, ad esempio, arresti domiciliari, riparazione del danno collegato con altra sanzione limitativa della libertà personale, lavori socialmente utili ecc., evidentemente in presenza di reati non gravi, sono obiettivi che da tempo sono all’ordine del giorno del dibattito sulla Giustizia e che, ormai, trovano pieno consenso nella maggior parte dei giuristi e degli operatori del diritto. E che trovano, nella lettera di papa Francesco, una  condivisione piena espressa in poche ma significative parole: “nessuna vendetta e difesa delle vittime”. 

Quest’ultimo passaggio, che il Papa esemplifica nel comportamento del Buon Samaritano, non deve essere affidato al “buon cuore”, ma deve essere codificato nelle leggi e garantito sino in fondo nell’esercizio concreto della giustizia penale, e non solo penale. Purtroppo non accade sempre, sono infiniti i casi di vittime che non ottengono il risarcimento materiale o morale a cui avrebbero diritto. 

Se l’inasprimento delle pene, come sottolinea il Pontefice, non risolve i problemi ne consegue – per riprendere uno dei temi trattati da Cesare Beccaria nel suo “libriccino” (così Alessandro Manzoni, nipote di Beccaria, definì il libro) – l’assoluta condanna della pena di morte, eliminata dallo Stato del Vaticano solo nel 2001 per volontà di Giovanni Paolo II (anche se dal 1870 non era più stata applicata). Sul tema Bergoglio non ha avuto quindi bisogno di intervenire, ma è indubbio che condivida l’assurdità del fatto che le leggi che puniscono l’omicidio finiscano per commetterne uno. 

Sarebbe però interessante, di fronte a una presa di posizione così precisa, conoscere il pensiero di Papa Francesco su un tema particolarmente delicato e “divisivo” – quello dell’ergastolo  – di cui si parla da tempo ma che, al di là dei convegni o dei dibattiti, il Parlamento non riesce, e non vuole, affrontare. Ricordo che nella legislatura 1996-2001 era stato approvato dal Senato un disegno di legge che aboliva il “fine pena mai” e che la Commissione ministeriale per la Riforma del codice penale, che ho avuto l’onore di presiedere, era pervenuta a una proposta di legge delega che prevedeva, in presenza di gravi reati oggi puniti con l’ergastolo, una pena carceraria adeguata alla gravità del fatto-reato, ma non infinita, cercando cosi di meglio conciliare la doverosa potestà punitiva dello Stato con l’art. 27 della Costituzione. 

Troppo spesso si considera il carcere come l’unico strumento utilizzabile nei confronti di chi è stato giudicato colpevole. Sappiamo tutti che non è e non deve essere così e non solo perché le condizioni delle carceri italiane non sono degne di un paese civile ma anche perché, come è ormai assodato, la percentuale di recidiva è molto più alta per chi ha scontato la pena in carcere rispetto a chi abbia usufruito di pene alternative. Questo non significa che bisogna abolire il carcere – per alcuni gravi delitti non c’è e non ci deve essere alternativa -, significa che per rendere concreto  il principio costituzionale della rieducazione del condannato sancito dall’articolo 27 della Carta ci sono modalità di espiazione della pena più efficaci, anche se meno afflittive, rispetto al carcere. 

Il Pontefice nella sua lettera affronta poi un tema delicatissimo come quello del rapporto tra l’esercizio concreto della giustizia penale e i mezzi di comunicazione. Un tema in Italia molto dibattuto senza però che si sia trovata una soluzione concreta per garantire un principio che io riassumerei così: le indagini devono essere riservate, il processo deve essere pubblico.

Bergoglio sottolinea il pericolo di ledere la dignità delle persone, di creare cioè dei “mostri” da mettere in prima pagina condannandoli “al diprezzo sociale prima che vengano condannati”. Si tratta di un pericolo concreto di cui abbiamo esperienza quotidiana che va affrontato senza però minimamente ledere un altro diritto sacrosanto e inviolabile come quello della libertà di stampa.

Su questo punto si inserisce il delicato tema delle intercettazioni. La mia posizione è chiara, la magistratura deve poter utilizzare uno strumento fondamentale per le indagini e l’attuale norma non ha necessità di esssere modificata ma solo di essere rispettata: oggi, infatti, le intercettazioni telefoniche e/o ambientali, che sono mezzi di ricerca della prova, dovrebbero essere autorizzate dal Gip solo quando “assolutamente indispensabili ai fini della prosecuzione delle indagini”. Necessaria e urgente è, invece, la modifica delle norme relative alla pubblicazione del contenuto di tali intercettazioni, in particolar modo quando vengono coinvolte persone estranee alle indagini che vedono violata la loro privacy senza giustificazione alcuna. Su questo bisogna avere la forza e il coraggio di fare passi avanti a tutela, non solo delle vittime dei reati o di chi, non indagato, viene direttamente o indirettamente intercettato, ma anche a tutela delle stesse indagini e della presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva.  

C’è infine un aspetto di straordinaria importanza che Papa Francesco prende in esame ed è quello che riguarda le diseguaglianze economiche e sociali come causa della delinquenza. Il Pontefice sottolinea come per prevenire il flagello della corruzione del crimine organizzato “non basta avere leggi giuste, è necessario formare persone responsabili e capaci di metterle in pratica”. Il compito del giurista non è quello di indicare le regole morali da seguire per essere persone responsabili, però è certo che da sole le norme, anche le più giuste, non risolvono tutti i problemi e questo Papa Francesco lo sa bene. 

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