C’è un posto, a  Roma, sulla cime di un colle, che scavalca all’indietro i secoli, e ti proietta al primo sguardo nel Medioevo. Santi Coronati, un monastero fortezza, sul Celio. A due passi dalla più nota San Clemente, ad altri due da San Giovanni in Laterano, su su, sopra il Colosseo. In una sera d’estate, percorrere la via stretta e scura, silenziosa, che porta a questa chiesa-convento è straniante, dimentichi la movida dei locali più in voga, non incroci neppure i turisti più colti, che guida alla mano si inerpicano lungo i bastioni. 



Santi Coronati, santi antichissimi. Soldati romani, uccisi perché cristiani e testimoni, quando la nuova fede si diffondeva nelle fila dell’esercito, e i suoi generali ne temevano il contagio. Oppure scalpellini, che si rifiutarono di erigere una statua per il dio Esculapio. La leggenda circonfonde le loro storie, il loro martirio, il reperimento delle reliquie. Quel che è certo, chi ha dato il nome ad una chiesa in loro memoria li conosceva, li venerava, se il titolo di parrocchia è tra i primi della capitale, appena dopo le grandi persecuzioni, a sostegno della cattedra di Pietro, insediata agli albori proprio in Laterano. 



Una basilica paleocristiana enorme, inimmaginabile, arroccata sulla collina del Celio: navate immense, quadriportico, una specie di San Paolo fuori le mura, per dimensioni e solennità. Poi, le invasioni, il tempo, ma soprattutto la sede papale spostata a San Pietro, e i Santi Quattro vengono occultati poco a poco dagli arbusti, le pietre si sgretolano, il famigerato Guiscardo fa il resto. Nel 1200 un papa mecenate, Pasquale II, che erige ed orna e decora molte chiese di Roma, mette mano anche qui e pur ridimensionando la grandiosa basilica, ridona una chiesa bella, imponente, preziosa. Lo testimonia il delizioso chiostro a colonnine binate, uno scrigno di puro romanico, la stupefacente cappella di San Silvestro, con uno dei cicli di affreschi bizantini meglio conservati. Vi si raccontano, come in stripes da fumetto, la conversione dell’imperatore Costantino, il suo inginocchiarsi al papa, per ricevere il battesimo, la sua purificazione con un pellegrinaggio in Terra Santa, da dove riportare in Occidente le reliquie del Cristo, che la santa madre Elena aveva con tanta passione fatto cercare.



Ma è la sala gotica il gioiello più luminoso e ignorato: l’aveva illustrata magistralmente il grande Federico Zeri, auspicando che venisse riportata alla luce e all’ammirazione del pubblico; ed è stato appena compiuto il restauro dopo decenni di lavori, e aperta ai visitatori, appena una volta al mese, perché qui è clausura di stretta osservanza, e le monache agostiniane che da sei secoli si avvicendano nel monastero non possono trasformarsi in guide turistiche e modificare i loro appuntamenti con la preghiera, quella sì, generosa verso chiunque varchi i doppi cortili e i doppi portoni del loro convento.

Una sera d’estate, a un gruppo di  amici che le frequentano per la Compieta cantata (non capita di sentire gli angeli cantare, è un balsamo per l’anima), le monache fanno il regalo di una visita privata. Tutto intorno è notte e ogni passo sulle pietre risuona, come secoli fa. Salendo le scale che portano ai piani alti, alla Torre Maggiore del vecchio palazzo cardinalizio. Le finestrelle ad ogiva schermate lasciano immaginare la visuale e la vita, e le mille storie che si sono avvicendate nel tempo. Una sala grande di mattoni rossi nuda di ornamenti (perché risalti l’essenziale, cioè un crocifisso di legno) conserva la biblioteca, e già le volte, le vetrine sul pavimento con i livelli di scavo inoltrano nel Medioevo. 

La chiave gira nella porta al fondo, suor Fulvia accende le luci, entra, ed è lo splendore dell’arte  e della fede. Alle pareti, brillanti, fresche, conservate da grossolani intonaci celestini che le hanno protette, le pitture parlano con la stessa vividezza di colori. È come recitare un passo del Genesi, come entrare in un canto del Paradiso dantesco. Nella  doppia sala, da una parte la vita dell’uomo, dall’altra il suo destino. Suor Fulvia racconta, con la sapienza e la semplicità certa dei nostri pontefici. È catechismo illustrato, perché era quello lo scopo di tutta l’arte dell’epoca, non solo gloria, non solo sfoggio di bravura e ricchezza: vedi come si squaderna il libro dell’esistenza, vedi come i quinterni sparsi si rilegano insieme, per donare il senso del tutto. I mesi srotolano le ore terrene, le opere dell’uomo su questa terra: gennaio trifronte ha un occhio al passato, al presente e al futuro. È l’origine, e dà il via al ciclo pittorico, ai lavori necessari ai bisogni degli uomini. Sul suo capo si appendono salsicce, si immagazzina, mentre ghiaccioli pendono dagli alberi, al posto dei frutti (il cristianesimo salva la materia, non fugge in un empireo disincarnato). Più a lato si cambia tempo, e spuntano i fiori, si ara, si semina, si raccoglie. Luglio è un sole così grande e centrale da svelare subito il suo carattere simbolico. È il pane eucaristico, quel disco giallo che dal finestrone sulla parete opposta prende luce, diventa cuore del tutto. Poi si va avanti, con la vendemmia, il maiale appeso per farne i salami che nuovamente verranno appesi a gennaio. Dall’alto, su quatto vele laterali, le stagioni, donzelle adorne di fiori e frutti, con eleganza vigilano. Nell’altro spazio del vasto salone si capisce il perché di tutto quella fatica, di quel tran tran. La terra è data all’uomo per il cielo, e sulla terra vigilano i custodi, che sono i santi, modelli di virtù e fustigatori di vizi.

Quelle donne in cotta di maglia, con l’elmo in mano, in assetto di battaglia non sono vergini antiche, dee classiche o virtù morali qualsiasi: sono le virtù cristiane, e portano in spalla, a cavalcioni, sul collo, degli omini che ne sono il modello. Piccoli giganti della fede, in alto, mentre ai piedi delle donzelle il contraltare e il contrappasso,  ovvero i vizi opposti puniti e i loro campioni schiacciati dal calcagno. Daniele giovinetto è la castità, la purezza, Maometto la lussuria; San Francesco, così uguale al celebre ritratto di Subiaco, appena fatto santo, all’epoca, guarda desolato a terra il potente per eccellenza, tanto quanto lui fu umile, Alessandro Magno. La carità regge San Pietro, e schiaccia Nerone…Al centro la giustizia è amministrata dal Giusto, Salomone: forse in quelle sale risiedeva un tribunale ecclesiastico, certo il committente, nipote di papa Innocenzo III, era un famoso giurista, e gli affreschi su questo fanno riflettere sul rapporto tra giustizia terrena e divina, tra Città terrena e Città di Dio. In pieno duecento, anzi, dopo il 1234 sicuramente, perché sono di poco precedenti le canonizzazioni di San Francesco e San Domenico, entrambi raffigurati come modelli di virtù. 

Per gli appassionati, è un ribaltamento delle nozioni correnti di storia dell’arte. Cimabue che teneva “lo campo” per lasciarlo a Giotto, vide questa Cappella Sistina d’altri tempi, e ne portò a Firenze i colori e la dotta maestria. Forse è da riscrivere, il primato assoluto di Fiorenza nella pittura del XIII secolo. Ad altri la sentenza. A chi sa solo guardare e stupirsi, le parole di suor Fulvia introducono al mistero della Chiesa, via per l’uomo alla felicità eterna, capace di esaltarne ogni aspetto, le arti e le dottrine, i lavori più umili e le glorie dello spirito. Oggi come secoli fa, la sua teologia per immagini si imprime nella memoria, e resta, per cambiare lo sguardo.