In una recente videoconferenza Amos Oz dialoga con i suoi numerosi lettori cercando di formulare un’estrema sintesi delle sue opere: “se dovessi dire in una parola di cosa parlano i miei libri” afferma lo scrittore 75enne che ha trovato la sua dimensione di uomo e di artista in oltre trent’anni di vita nei Kibbutz “direi che parlano di famiglie. E se dovessi dirlo con due, direi che parlano di famiglie infelici”. Eppure sarebbe fuori strada chi volesse cercare solo in questa direzione il motivo dell’omaggio che Shimon Peres ha voluto fare ad Abu Mazen e a Papa Francesco, in occasione dell’incontro, lo scorso 8 giugno, nei Giardini Vaticani. Il 90enne presidente uscente dello Stato d’Israele ha portato con sé, come dono simbolico, il maggiore dei romanzi di Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra: un imponente mosaico che disegna la storia moderna d’Israele usando come tasselli le storie individuali dei suoi poliedrici abitanti. “Siamo un popolo di profughi continuamente bisognosi di rassicurazione” ha ricordato di recente lo scrittore fondatore di Peace Now in occasione delle prese di posizione filo-palestinesi dei media internazionali, prendendo la parola dopo alcune azioni di ritorsione indiscriminata di coloni israeliani dei territori (occupati) nei confronti di villaggi palestinesi. Per loro Oz non ha esitato a coniare l’ossimoro pesantissimo di ebrei-neonazi.
Amos Oz è nato a Gerusalemme in una famiglia di profughi lituani, in buona parte letterati e sionisti, vicini al partito laico di destra Herut, di cui il prozio Joseph Klausner fu il candidato alla presidenza nelle prime elezioni dello Stato d’Israele. “A Gerusalemme erano tutti scienziati, scrittori o poeti. Anche il postino aveva una laurea presa in non ricordo più quale università tedesca (…) Tutti avevano un bagaglio intellettuale, tutti erano infelici, erano dei rifugiati e sognavano di tornare un giorno in Europa” (M.S. Palieri, l’Unità, intervista).
Amos abbandona il suo cognome europeo (Klausner) per Oz, che significa forza, entrando a 15 anni nel Kibbutz di Holda, pochi anni dopo il suicidio della madre Fania. Al Kibbutz di Holda resterà per trent’anni. Oggi vive e insegna ad Arad, ai margini del deserto del Negev, mentre la moglie Nily Zuckerman fa la spola con Londra curando gli interessi del marito. Di recente le sue opere sono state tradotte in cinese, con stupore dello stesso Oz, che incessantemente non fa che scrivere storie “locali” di ebrei dalle variegate origini europee o russe e di nuovi ebrei cresciuti col mito dei pionieri, “una razza nuova di contadini. Tutti d’un pezzo. Umorismo sottile. Decisioni sicure. Dedizione”. Ragazzi abbronzati, atletici, combattivi, che lasciano il Talmud per L’arte della guerra, e sposano il lavoro come strumento di redenzione: della terra e loro. Ragazze efficientissime e sensuali. Anch’esse, all’occorrenza, combattive e armate.
Una storia di amore e di tenebra è l’epopea moderna di un popolo che Oz non racconta mai per schemi o sulla base di un minino comun denominatore. Ogni suo personaggio è un io reale, irripetibile, con luci e ombre, spesso dai riflessi disorientanti: così da brillare laddove ci si aspetterebbe il buio o da rivelare lati oscuri laddove ci si aspetterebbe un racconto coerente e luminoso. È la storia minuta di una realtà complessa e aggrovigliata, che sfugge alla capacità rappresentativa della Cnn, dove tutto è interpretato come scontro tra una ragione e un torto, mentre per Amos Oz il conflitto arabo-israeliano è il conflitto tra due ragioni. Un tema su cui il libro torna a più riprese, come nel dialogo del giovane Oz con un più anziano compagno del Kibbutz in un turno di guardia armata: “Assassini? Ma che ti aspetti da loro? Dal loro punto di vista noi siamo extraterrestri giunti dallo spazio a sparpagliarci sulla loro terra (…) C’è forse da stupirsi se hanno imbracciato le armi contro di noi? E adesso che abbiamo inferto loro una sconfitta schiacciante − e centinaia di migliaia di loro da quel giorno vivono nei campi profughi − ti aspetti forse che condividano la nostra gioia (…)”. (p. 554)
Operare per la pace significa per Oz contribuire a trasformare una guerra di religione e ideologica in una questione pratica. Al limite in una questione prosaica: un’enorme questione di condominio, dove, come si usa dire, “chi ha il buon senso ce lo metta”. Con Peres, Oz condivide la necessità che sorgano i due stati di Israele e di Palestina, anche al prezzo della cessione della West Bank (coincidente con la Cisgiordania e i territori occupati nella guerra dei 6 giorni del 1967), spostando il baricentro dello Stato a sud, affidando al “genio ebraico” il compito di “far fiorire nel deserto” del Negev una nuova Silicon Valley israeliana.
L’arte del compromesso Oz l’ha evocata anche a proposito del rapporto uomo donna, e quando la giornalista di turno gli ha chiesto − un po’ incredula − se (insomma!) questo compromesso andasse ricercato ogni giorno, lo scrittore le ha a(ma)bilmente risposto che no, non ogni giorno: ogni momento. Chissà che la sua opera di letteratura e di pace non giovi anche alle famiglie infelici di cui sopra.