Perché diciamo tranquillamente la sarta o la parrucchiera mentre la sindaca e l’ingegnera fanno problema? La risposta non è grammaticale: in tutti questi casi la “mozione” (così i linguisti chiamano la possibilità che a un tema nominale siano attribuiti generi grammaticali diversi attraverso suffissi o desinenze) prevede un meccanismo analogo: da un maschile in o ci aspettiamo un femminile in a, da un maschile in iere un femminile in iera. La ragione è culturale: per condizioni professionali in cui la presenza femminile è da tempo abituale, la distinzione grammaticale maschile-femminile è assicurata; nei casi di professioni o attività tradizionalmente maschili il processo è più lento. 



La società cambia molto più velocemente della lingua. Poco male se continuiamo a scrivere (quando non digitiamo su una tastiera) con la penna, che non ha più nulla che fare con l’antico strumento scrittorio fornito dall’oca; ma azzerare la presenza femminile, che ormai ha affiancato o superato quella maschile in professioni un tempo precluse (pensiamo al numero delle avvocate, delle magistrate, delle uditrici giudiziarie; ma anche alle ginecologhe o alle radiologhe), non è evidentemente la stessa cosa. 



Non basta che il grammatico o il linguista diano il via libera. Le difficoltà a generalizzare il femminile sono almeno due. Un tipico suffisso femminile, essa (affermatosi senza rivali in studentessa, dottoressa, professoressa) ha un’antica connotazione sfavorevole che può essere avvertita in nomi professionali non altrettanto stagionati come soldatessa, vigilessa e la stessa avvocatessa. Questo alone negativo si ritrova in parole ormai rare se non obsolete come articolessa “articolo lungo e noioso”, discorsessa “discorso enfatico e inconcludente”: il suffisso suggeriva l’idea di qualcosa di troppo lungo, di dimensioni eccessive, e il femminile si spiega (nonostante le donne siano normalmente più minute dell’uomo) col fatto che le donne incinte sono indubbiamente “più grosse” di lui. 



Il problema si risolve facilmente: basta generalizzare la vigile (e così per altri nomi “di genere comune”, ossia con una forma che può valere per entrambi i generi: la presidente, la dirigente ecc.), la soldata e l’avvocata. Ma qui si affaccia la seconda difficoltà: molte donne che svolgono quest’ultima professione (per le soldate non so, ma per le avvocate, molto più numerose, posso affermarlo con sicurezza) non gradiscono la forma con desinenza femminile e preferiscono autodesignarsi come l’avvocato Paola Rossi. E lo stesso vale per ministro: ministra sembra ironico a molte donne che svolgono questa funzione, come se la parificazione dei generi sul piano dei diritti (sacrosanta) dovesse estendersi anche al piano grammaticale.

Questa è una difficoltà più seria: imporre un uso quando le dirette interessate recalcitrano sembra difficile. Ma il fatto è che il fronte non è così compatto. Da un lancio in Google effettuato il 12 luglio 2014 (e da prendere con tutta la cautela del caso) risulta che il ministro Boschi / Giannini / Lorenzin (tre ministre del governo Renzi) è dominante, ma gli esempi di la ministra vanno dal 4,8% per Maria Elena Boschi al 3,8% per Beatrice Lorenzin (c’è poi una quota dell’ibrido la ministro + cognome di donna, da sconsigliare anche per ragioni grammaticali).

Come andrà a finire? Se lo vorranno, sta ai direttori di giornali, ai conduttori di spettacoli televisivi, ai responsabili dei blog, tanto più se donne, di favorire il tipo la ministra invece di il ministro, senza parlare nemmeno di la ministro.