Proponiamo la prefazione di Julián Carrón al libro di don Luigi Giussani, “Il movimento di Comunione e Liberazione (1954-1986). Conversazioni con Robi Ronza”, Bur, 2014, pubblicata oggi dal “Corriere della Sera”.
Riandare alla storia è sempre utile per chi non voglia rimanere in balia delle circostanze, prigioniero di un presente senza radici. Per chi partecipa dell’esperienza cristiana, poi, è ancora più decisivo, e non per una sterile rievocazione, ma per prendere costantemente coscienza dei fattori originali dell’avvenimento cristiano che devono diventare nostri.
Benedetto XVI ci ricorda che nell’ambito dell’esperienza umana non è possibile «un progresso addizionabile […] per il semplice motivo che la libertà dell’uomo è sempre nuova e deve sempre nuovamente prendere le sue decisioni. Non sono mai semplicemente già prese per noi da altri – in tal caso, infatti, non saremmo più liberi. La libertà presuppone che nelle decisioni fondamentali ogni uomo, ogni generazione sia un nuovo inizio» (Spe salvi, 24).
La fedeltà all’inizio è decisiva se non si vuole smarrire la strada. Infatti, come scrive papa Francesco, «quando diciamo che questo annuncio è “il primo”, ciò non significa che sta all’inizio e dopo si dimentica o si sostituisce con altri contenuti che lo superano. È il primo in senso qualitativo, perché è l’annuncio principale, quello che si deve sempre tornare ad ascoltare in modi diversi […], in tutte le sue tappe e i suoi momenti» (Evangelii Gaudium, 164).
Mentre vivevamo i momenti della storia di cl, avevamo una certa capacità di coglierne i fattori decisivi, legata alla autocoscienza che avevamo venti, trenta o quarant’anni fa. Per questo ritornare oggi a quella storia vedendo come l’ha vissuta e giudicata don Giussani – mettendosi dal suo punto di vista -, può farci capire cose che non avevamo colto o che nel tempo avevamo lasciato per strada.
Il libro di conversazioni di Ronza con don Giussani, che ripercorre la storia del movimento dal suo inizio nel 1954 fino al 1986, e che viene ora ripubblicato, ci consente di riandare alla storia del movimento (prima Gioventù Studentesca e poi Comunione e Liberazione) mettendoci dal punto di vista di don Giussani, per vedere come affrontava le urgenze della vita e chi era Cristo per lui; potremo anche vedere come ci correggeva quando ci spostavamo dalla strada segnata, quella della vita cristiana autentica che lui aveva incontrato nell’alveo della Chiesa ambrosiana.
«Per me la storia è tutto; io ho imparato dalla storia», diceva don Giussani. Anche noi dovremmo avere sempre la sua semplicità e la lealtà di metterci in ascolto per potere imparare – o imparare di nuovo – dalla storia. Sarebbe un esercizio di purificazione della memoria che è fondamentale per continuare a camminare.
Quante volte in questi anni, rileggendo alcuni testi di don Giussani alla luce delle sfide e delle domande che urgevano nella nostra vita, le sue parole (anche quando le conoscevamo bene) hanno acquistato una luce diversa, davanti ai nostri occhi si sono dimostrate più pertinenti di quando le avevamo lette la prima volta. Ci sono momenti in cui vediamo che don Giussani parla di più alla nostra vita oggi, addirittura di più di quando quelle stesse parole le ascoltavamo dalla sua viva voce.
Per quanto mi riguarda, ricordo la sorpresa nel rileggere alcune pagine di questo libro all’inizio del 2013, in un momento in cui cl era al centro dell’attenzione dei media per il suo rapporto con la politica. Rispondendo a Ronza che lo interrogava proprio sulla natura della presenza del movimento nella società, alla fine del 1975 don Giussani diceva: «Il primo livello di incidenza politica di una comunità cristiana viva è la sua stessa esistenza, in quanto questa implica uno spazio e delle possibilità espressive, e perciò presuppone una gestione autenticamente democratica del potere pubblico e della realtà politica e statuale in cui si situa. L’esistenza della comunità cristiana, per propria natura, non chiede la libertà di vita e di espressione come solitario privilegio, ma piuttosto di riconoscimento a tutti del diritto di tale libertà. Quindi, per il solo fatto di esistere, se sono autentiche, le comunità cristiane sono appunto garanti e promotrici di democrazia sostanziale». Continuava don Giussani: «Una comunità cristiana autentica vive in costante rapporto con il resto degli uomini, di cui condivide totalmente i bisogni, e insieme coi quali sente i problemi. Per la profonda esperienza fraterna che in essa si sviluppa, la comunità cristiana non può non tendere ad avere una sua idea e un suo metodo d’affronto dei problemi comuni, sia pratici che teorici, da offrire come sua specifica collaborazione a tutto il resto della società in cui è situata». Infine, «quando dalla fase della sollecitazione e dell’animazione politico-culturale si giunge a quella della militanza politica vera e propria, non è più la comunità in quanto tale a impegnarsi, ma sono le singole persone che a responsabilità propria, anche se formate dalla vita concreta della comunità medesima, si impegnano alla ricerca di strumenti ulteriori di incidenza politica sia teorici che pratici. […] C’è fra noi tutti in quanto cl, e i nostri amici impegnati nel Movimento Popolare e nella dc, un’irrevocabile distanza critica. […] E a questa distanza critica noi non rinunceremo mai. […] Del resto, se non fosse così, se cioè qualsiasi realizzazione per il solo fatto di essere stata promossa da persone di cl – sia pur note e rappresentative – diventasse meccanicamente “del movimento”, l’esperienza ecclesiale finirebbe per essere strumentalizzata, e le comunità si trasformerebbero in piedistalli e in coperture di decisioni e di rischi che invece non possono che essere personali» (pp. 152-155).
Come abbiamo visto leggendo la Vita di don Giussani, tanti che credevano di conoscerlo si sorprendono nello scoprire che è di più di quello che pensavano. Noi per primi. Perché? Perché da una vita non si finisce mai di imparare, perché una vita non si può ridurre a «discorso» o «schema», è come un’acqua che non si riesce a contenere.
Proviamo a riascoltare oggi, a sessant’anni esatti di distanza, quale giudizio mosse don Giussani nel suo tentativo tra i giovani e quale fosse per lui il contenuto essenziale da comunicare: «Il fatto che più mi colpiva era che quasi tutti erano battezzati, molti di loro andavano in chiesa ogni domenica, ma nella loro giornata era come se il cristianesimo non avesse alcuno spazio, come se appartenesse a un altro livello dell’esistenza. Un livello che non aveva nulla a che vedere con la vita e tutte le sue urgenze più significative; con la concezione e il sentimento del reale; con la necessità di giudicare, di rendersi ragione di tutto quello che arricchisce e fa diventare l’uomo più umano, e che gli permette di costruire la sua personalità come centro di rapporti. Con tutte queste realtà la fede non c’entrava; quindi in pratica non c’entrava con nulla che fosse di qualche effettivo rilievo nella vita della persona. Come mai – mi domandavo – la fede non è presente in un ambito, come quello giovanile studentesco, nel quale la sensibilità ai valori dovrebbe essere più immediata e chiara? Probabilmente – mi rispondevo – ciò si doveva al fatto che mancava la consapevolezza e il coraggio di annunciare la proposta cristiana ed ecclesiale nella sua specifica sostanza, […] l’essenza del fatto cristiano non costituiva proposta di vita. Dal momento che la maggior parte delle persone (comprese quelle che andavano ancora in chiesa) era ormai psicologicamente e culturalmente lontana dal cristianesimo, ritenevo che si dovesse sfrondare l’annuncio da tutto ciò che poteva avere di contingente e di secondario per farlo emergere invece nella sua essenzialità. Miriamo innanzitutto – dicevo – a ciò che Cristo ci ha portato, e non a quello che altri hanno sovraggiunto; probabilmente il nostro richiamo sarà anche più efficace». E qual è, allora, l’essenza del fatto cristiano? Don Giussani ce lo testimonia fin dall’inizio: «È l’annuncio di Cristo: questo è il centro di tutta la vita dell’uomo e della storia. E questo si vive mettendosi insieme, vivendo una vita di comunità perché Cristo nella storia prosegue dentro il segno della grande comunità che è la Chiesa». Questa consapevolezza gli ha consentito di dare vita a un tentativo che dura tuttora: «Abbiamo cominciato così: parlando di Cristo» e «cercando di affrontare tutti i problemi a partire da un punto di vista cristiano, da quello che ci sembrava essere il punto di vista della parola di Cristo autenticata dalla tradizione e dal magistero ecclesiastico; mettendoci insieme in vista di tale progetto. Dunque niente di élitario né di intellettualistico, ma piuttosto una preoccupazione innanzitutto esistenziale» (pp. 23-24).
Altrettanto prezioso sarà rileggere le pagine nelle quali don Giussani descrive il metodo che da subito cercò di comunicare ai primi studenti che si coinvolsero con lui in un’amicizia che andava aldilà delle ore di lezione nel liceo Berchet di Milano. È lo stesso metodo che cerchiamo di seguire anche oggi – ben coscienti dei nostri limiti e della necessaria correzione -, «spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un’altra via».
Da sessant’anni mai seguendo un’altra via. E qual è per don Giussani la condizione per rimanere su questa via, quale il metodo della sua proposta educativa? «I ragazzi di gs erano sollecitati a puntare sull’esperienza come sul luogo dove può essere adeguatamente verificata la validità dei criteri che la persona si vede proporre da chi incontra e dall’ambiente che la circonda. Il luogo di tale verifica – noi affermiamo – non è infatti la dialettica quanto l’esperienza. Mi sembra che questo modo di procedere si possa ultimamente ricollegare alla definizione di verità che è propria di san Tommaso d’Aquino: la verità come adaequatio rei et intellectus, ossia come corrispondenza di quanto viene proposto (sia esso un evento o un’affermazione) con la propria vita, con la coscienza di sé in quanto implica esigenze ed evidenze originarie. Da ciò deriva la priorità del fatto, di cui l’uomo è costituito, rispetto a ogni possibile a priori teorico elaborato dal pensiero umano». Per lui, «il vero a priori, da cui partire per valutare se stessi e il mondo cristiano circostante, è il fatto della propria natura percepita in actu exercito (come esistente in azione)». Per questo don Giussani ricorda a Ronza che «in quegli anni dicevamo sempre che la proposta cristiana non bara perché si affida tutta quanta a un giudizio che nasce dal confronto fra essa e le evidenze originarie, nonché le strutture di bisogno in tutti i sensi che sono nell’uomo. Ma è anche vero che la proposta cristiana esige che pure l’interlocutore non bari. Questi deve prenderla sul serio, paragonandola con tutta la propria vita e le proprie esigenze naturali. Una delle formule che usavo molto allora era questa: “Se, diventando adulti, non volete alienarvi e diventare schiavi di coloro che hanno il potere, dovete abituarvi subito a paragonare alla vostra esperienza ogni cosa che io vi dirò, ma anche ogni cosa che altri vi diranno”. E spiegavo poi che per esperienza elementare intendevo la consapevolezza di quell’insieme di esigenze e di evidenze originarie di cui sono costituiti l’animo e il cuore dell’uomo» (pp. 31-32).
Siamo rimessi davanti a un uomo che non si è sottratto al rapporto con la realtà, anche quando essa assumeva un volto problematico e drammatico, sostenuto da un’unica certezza: «L’inizio è una presenza che s’impone. L’inizio è la provocazione di una promessa alla nostra vita da seguire, è partecipare a una esperienza viva che si vede davanti a sé». Chi sarà disponibile a seguirlo, chi cioè vorrà rifare un tratto di strada con don Giussani attraverso le pagine di questo libro, con il desiderio di rivivere l’esperienza che lui ha vissuto, vedrà una volta di più che quello di don Giussani è un cammino storico lungo il quale ha dovuto affrontare le nostre stesse sfide e urgenze, sempre con gli occhi puntati sull’essenziale, fino a scoprire la portata della fede nella sua vita: «Solo Cristo si prende tutto a cuore della mia umanità. È lo stupore di Dionigi l’Areopagita (V secolo): “Chi ci potrà mai parlare dell’amore all’uomo proprio di Cristo, traboccante di pace?”. Mi ripeto queste parole da più di cinquant’anni!» (Roma, 30 maggio 1998).
È questa certezza che gli fa rispondere a Ronza – che domanda: «Don Giussani, la stampa l’ha definita in molti modi; e lei chi crede di essere?» – con queste semplici parole: «Sono un gran poveraccio. Capisco che Dio mi ha fatto tanti favori nella vita: mi ha fatto vedere, sentire e incontrare una vivezza di fede, e di vita di Chiesa, che è veramente grande; e alla luce di tutto questo, mi avvedo di esser stato incoerente e ingeneroso. Ma non riesco a non essere entusiasta di ciò che Dio m’ha fatto pensare, sentire e incontrare» (p. 162).
L. Giussani in A. Savorana, Vita di don Giussani, Rizzoli, Milano 2013, p. VIII.
Si tratta del volume di A. Savorana, Vita di don Giussani, Rizzoli, Milano 2013.
T.S. Eliot, Cori da “La Rocca”, Bur, Milano 2010, p. 99.
L. Giussani, «Un’esperienza viva che si vede», «Tracce-Litterae communionis», n. 1, gennaio 2004, p. 73.
Testimonianza di don Luigi Giussani durante l’incontro del Santo Padre Giovanni Paolo II con i movimenti ecclesiali e le nuove comunità. Piazza San Pietro, 30 maggio 1998. L’intervento intitolato «Nella semplicità del mio cuore lietamente ti ho dato tutto» è pubblicato in L. Giussani – S. Alberto – J. Prades, Generare tracce nella storia del mondo, Rizzoli, Milano 1998, pp. III-IV.