Andare a fondo di ciò che è Giustizia ci obbliga, come sempre accade per le questioni capitali, ad un confronto con le due grandi narrazioni che hanno accompagnato l’Occidente, almeno fino alle soglie della post-modernità: il Logos, completato dalla forza evocatrice del Mito, e la Bibbia. Ce lo ricorda con chiarezza Luciano Violante nel suo bel commento a una lettera del Papa inviata il 30 maggio scorso ad alcuni operatori del diritto riuniti in congresso. Alle due sequenze interconnesse offesa-verità-conciliazione e offesa-conciliazione-oblio, all’origine del concetto di amnistia inteso come divieto di ricordare i delitti commessi per salvaguardare la riconciliazione tra i membri della polis, egli accosta la nozione veterotestamentaria di tsedaqah, un concetto che travalica la piatta concezione della norma e dà spazio al tessuto relazionale dell’uomo con gli altri, le cose, se stesso e specialmente con Dio, con l’Altro, con il Mistero.
In questo senso è “giusto” chi apre spazi, e si apre a spazi, di comunione. E la Giustizia si fa carne, atti, dimostrazioni operanti di salvezza. A ciò il Nuovo Testamento, ce lo ricorda sempre Luciano Violante, aggiunge un ulteriore elemento deflagrante: Dio opera con radicale misericordia, antepone “illogicamente” il perdono alla conversione. Gli uomini capiscono ciò che è male e ciò che è bene, cambiano, si rinnovano, ricuciono relazioni quando si lasciano toccare da una Grazia che opera secondo un principio apparentemente paradossale: quello del Buon Samaritano, che non si pone il problema di chi sia il prossimo e si sporca le mani; quello del Buon Pastore, che abbandona le novantanove pecore per salvare l’unica smarrita; quello del Padre buono, che accoglie il figlio perso prima che sia pienamente consapevole della propria condizione umana, sconvolgendogli così il cuore, riponendolo in un circuito di comunicazione-comunione che lo rinnova – e che precipita, di converso, il fratello ubbidiente in una confusione forse foriera di un ulteriore cambiamento trasversale; quello del Seminatore, eccessivo e irragionevole, che lancia manciate di chicchi sui sassi e sui rovi, che punta anche su chi ha un cuore di pietra… un Generoso incurabile, sconsideratamente ottimista in un futuro improbabile.
Un esempio straordinario di Giustizia come risultato di un insieme di procedure riconciliatrici capaci di sterilizzare i meccanismi della vendetta e del perdurare nel tempo del peso oppressivo dell’odio, per dirla con le medesime parole di Luciano Violante, un esempio purtroppo poco valorizzato per vari motivi che qui non possiamo enucleare, accadde tra il 1983 e il 1987: i quattro anni che posero fine alla lotta armata in Italia, e non solo.
Nei primi mesi del 1983, in occasione di due processi che coinvolgevano buona parte dei militanti di Prima linea, ebbe luogo, in carcere, un congresso che decretò nell’estate di quell’anno lo scioglimento dell’organizzazione. All’inizio, la riflessione si era attestata unicamente sull’assoluta inadeguatezza dello strumento armato a modificare positivamente lo stato presente delle cose. Un ragionamento solo politico, quindi, ma già sufficientemente poco ideologico da modificare lo sguardo sulla realtà.
Fu sufficiente, infatti, un giudizio leale, scevro da preconcetti, perché man mano tutti si rendessero conto della tragedia in atto. Così, quell’iniziale semplice disponibilità a riconsiderare le modalità formali di un impegno politico radicale – peraltro, da parte di chi era indiscutibilmente fuori gioco, sconfitto, segregato nel luogo socialmente deputato all’incondizionata esclusione – mise in moto una imprevedibile dinamica. Innanzi tutto, la liberazione dai vincoli associativi, pubblica e partecipata, personale e collettiva, consentì uno svolgersi corretto dell’iter giudiziario, che condusse a una verità processuale sostanzialmente condivisa e priva di buchi neri. Ciò favorì l’avvio di una serie di confronti tra detenuti e ceto politico istituzionale, una discussione che non poté essere solo legata alle ragioni storiche, socio-economiche, ai presupposti teorici e ideologici che avevano in vario modo inquadrato quegli anni di lotta, ma che coinvolse personalmente tutti i partecipanti, ognuno con il proprio percorso, ruolo e responsabilità. In piena onestà, ognuno ci mise del suo e tutti rischiarono del loro.
Nel frattempo, il dibattito si era allargato anche ad alcune componenti delle Brigate rosse, fino a sancire l’oggettivo smantellamento di quell’organizzazione e a relegare a marginalità residuale le tematiche combattenti che avevano caratterizzato la seconda metà degli anni Settanta. Inoltre, le articolazioni formali e organizzative di quell’avvenimento, vale a dire il Movimento per la dissociazione politica dal terrorismo (la denominazione assunta dall’insieme dei detenuti partecipanti) e le Aree omogenee (i luoghi fisici di detenzione e, nel contempo, l’interfaccia tra il movimento e le istituzioni) si aprirono anche ai detenuti politici di destra che accettavano le regole comportamentali condivise, sostanzialmente equiparabili a quelle della democrazia.
In questo modo si chiuse definitivamente quello strascico di guerra civile che aveva insanguinato il Paese dalla fine della seconda guerra mondiale, con rossi e neri a spararsi per tradizione. Senza volgari strumentalizzazioni e dolorose pubblicità, si avviarono anche molti singoli momenti di confronto con le vittime, o parenti di vittime, e si affrontarono quegli aspetti che sfuggono alle formalità politiche, giuridiche, storiche, ma sono nel bene e nel male la materia concreta – fatta di sangue, dolore, rancore e compassione – di tutte le dinamiche di rottura della legalità. Prima con lentezza e poi in maniera sempre più rapida, il clima nelle carceri si modificò positivamente, consentendo l’accesso di un gran numero di figure appartenenti alla società civile e l’avvio di un processo di socializzazione dell’istituzione penitenziaria, che proseguì fino alla fine degli anni Ottanta e per buona parte degli anni Novanta.
Il confronto, allargatosi a tutti i partiti politici, dal Movimento sociale al Partito comunista, si concretizzò, infine, nella elaborazione di una proposta di legge che, approvata nel febbraio del 1987, consentì una progressiva decarcerazione di quasi tutti i detenuti politici e il ritorno di molti militanti rifugiatisi all’estero. Una legge che prevedeva, con grande lungimiranza, la necessità che ogni imputato entrasse nel merito di ogni sua personale e specifica responsabilità, senza potersi nascondere dietro a formule di generica ammissione.
Questa particolare attenzione voluta dal legislatore, il dover fare i conti con i drammi concreti e non con gli astratti travagli della Storia, contribuì non poco ad approfondire una riflessione non solo oggettiva, ma anche capace di farsi cambiamento soggettivo, personale, del cuore. Come scrive Papa Francesco, la sfida è che «[…] le misure adottate contro il male non si accontentino di reprimere, dissuadere e isolare quanti lo hanno causato, ma li aiutino anche a riflettere, a percorrere i sentieri del bene, a essere persone autentiche che, lontane dalle proprie miserie, diventino esse stesse misericordiose». Nell’ottobre dell’anno precedente era stato, inoltre, approvato un pacchetto di provvedimenti, la cosiddetta legge Gozzini-Casini, che accordava a tutti i detenuti, tra l’altro, l’accesso ai permessi premio e alle misure alternative alla pena.
Se l’Italia oggi non ha una prigionia politica ad avvelenare un clima già abbastanza malato, migliaia di donne e di uomini dietro alle sbarre a svolgere il ruolo del “grande spauracchio”, a testimoniare l’incapacità di mediazione e l’impossibilità del cambiamento – a tutti, ai riformisti e ai radicali, a chi sta nel sistema e a chi vuole cambiarlo con il conflitto – lo dobbiamo a quei quattro anni straordinari in cui ognuno diede il meglio di sé, nei quali si manifestò un modo paradossale, ma straordinariamente efficace, di fare cose buone e giuste.