Tra i maggiori intellettuali svedesi del secolo scorso, Lars Gustafsson possedeva una raffinata perizia metaforica a proposito di corde e di nodi, che egli sapeva stringere e sciogliere in un costante intreccio fra la realtà della scrittura e la realtà dell’esistenza. Così, per spiegare con un’immagine quale fosse l’ufficio della letteratura nel mondo, egli suggeriva di immaginare «una corda» e di farci «un nodo su di essa, uno di quei nodi che si possono far scorrere lungo la corda. Quando la nostra corda di canapa è finita, congiungiamo la sua estremità ad una corda di cotone, e continuiamo a far scorrere il nodo lungo la nuova corda». 



L’intrecciarsi delle corde, o dei fili, come suggerisce il titolo del volume di Zardin (I fili della storia. Incontri, letture, avvenimenti, Edizioni di Pagina, Bari 2014) rivela quindi i significati della realtà, che tuttavia sono di per sé invisibili: «Che cos’è il nodo? Evidentemente non è la corda. Il nodo, in verità, è qualcosa di invisibile. Per renderlo visibile occorre una corda. Nel flusso della vita ci sono di questi nodi. Il poeta fornisce la corda». Come la poesia di Gustafsson rivela i significati dell’esistenza, così la storia di Zardin entra nei tempi lunghi della cultura – degli «incontri», delle «letture», degli «avvenimenti» –, e lavora come una sonda che, nei dettagli di quel flusso, supera la catalogazione dei meri eventi e coglie gli accadimenti carichi di particolare densità di senso. 



Non inganni, perciò, la varietà dei titoli e dei temi qui raccolti: non si tratta di scrittura occasionale, per quanto si tratti di saggi nati dalla collaborazione alle pagine culturali di un quotidiano. Si tratta infatti, e l’autore lo dichiara espressamente, di «saggi esemplari su argomenti trascelti» entro gli «andirivieni tortuosi» della «gigantesca parabola» storica che conduce alla civiltà moderna. La «genealogia» della modernità è dunque il leit motiv del volume, che Zardin prova ad interrogare nella sua plurale composizione, per aiutarci a restituire un volto meno stereotipato a quella modernità cui noi tutti, noi Moderni, apparteniamo. 



Saggi scritti, dunque, per provare a ridisegnare l’identità della cultura moderna senza tralasciare le mille contraddizioni, certo, ma soprattutto senza tralasciare i molteplici apporti che hanno contribuito a realizzarla così come essa oggi appare nella sua quasi metamorfica e spesso smemorata figura. Un’identità che, tra l’altro, non può coincidere completamente e in nessun caso con una sola fra le radici che hanno nutrito la sua tradizione. Tanto meno, quindi, l’identità moderna potrà coincidere con quella tradizione che più di tutte l’ha plasmata e sulla quale insiste specialmente l’interesse storiografico di Zardin, vale a dire la genealogia della cultura umanistica e cristiana. Una insistenza sull’eredità cristiana che tuttavia non si oppone a quella ormai sbiadita di una modernità che via via si emancipa storicisticamente verso le ideologie progressive; l’acribia dell’indagine dello storico si esercita invece su un terreno meno frequentato, in un certo senso “interno” alla dialettica della storia del cristianesimo, per suggerire una maggior apertura realistica al confronto con le molte anime costituenti la nostra civiltà, la loro continua e complessa sedimentazione.

La pur ampia varietà dei titoli ruota perciò intorno a nuclei ben individuati e stabili: i saggi “cristologici” dallo Stabat mater alle Confraternite; i classici della storia intellettuale del cristianesimo occidentale da Dawson a von Balthasar, da Spitzer a Kristeller; la figura di san Carlo Borromeo e la cultura del Barocco e della Controriforma; il dialogo interreligioso; i protagonisti della modernità italiana che più hanno dialogato con quella tradizione, da Collodi a Pasolini. Ma la ricchezza dei soggetti rivela altresì l’ampiezza degli interessi dell’autore, che in questo contesto meno specialistico, rispetto a quello accademico in cui prevalentemente si esprime, riesce a trovare momenti di profonda riflessione storica anche nelle pieghe meno appariscenti della complessa azione umana. 

L’impressione che infine lascia la molteplicità degli argomenti toccati è quella di una sfida costante che la storiografia deve ingaggiare con la variegata contingenza dei fenomeni culturali, difficili da ridurre sempre entro prestabiliti e delimitati ambiti di ricerca. Mentre nelle sedi istituzionali, per dover essere esatta, a volte l’indagine scientifica sacrifica il dato culturale agli altari di linguaggi troppo neutri e specializzati, in questi «saggi» viceversa la realtà degli eventi storici sembra emergere con maggior fedeltà al dato culturale complesso, profondo, dialogico. Fosse solo per questa lezione di metodo, il libro varrebbe l’attenta e interessata lettura. 

Ma è giusto chiarire fino in fondo la metafora dei «fili della storia», giustamente barocca, che guida chi legge sin dal titolo: per quanto implicito, i molti «fili» intreciati da Zardin appartengono tutti ad un orizzonte comune, che rende «esemplari» anche per un altro motivo questi saggi. Lungi infatti dal voler rappresentare con i tanti sondaggi la frammentarietà in cui spesso si è voluta identificare una certa cultura moderna e post moderna, l’ipotesi di lettura più insistita del libro risiede invece nella constatazione che «le fratture e i salti di discontinuità» si sono appunto «annodati in modo inestricabile» con la sedimentazione del tempo storico. Come la corda di Gustafsson, che ora è di canapa e ora di cotone, anche le cesure della storia in realtà sono fatte di elementi preesistenti, che si continuano modificandosi nel tempo, e grazie ai quali si edifica la civiltà. Ed è questo tempo della storia ad essere connaturalmente refrattario ad un’interpretazione degli eventi come fatti isolati, quasi contassero solo e soltanto quando essi fossero accaduti come “eventi” eccezionali. È invece la loro continuità, e spesso anche la loro normale quotidianità storica, ad attrarre l’attenzione di Zardin; è la quotidiana «persistenza» a rendere grandi molti fatti della storia, come credevano gli Antichi, che ponevano le fondamenta delle loro istituzioni sulla lunga durata, per arginare il naturale mutarsi e trasformarsi delle cose del mondo. 

Si capiscono meglio, così, anche i tre soli termini che l’autore, nell’introduzione, pone in carattere corsivo: capire, rottura, in fieri. Compito dello storico è, come insegnava Vico, capire la diversità delle civiltà lontane e passate, dalle quali certo siamo separati da elementi di rottura, a causa del continuo divenire (in fieri) delle cose; eppure, poiché fatte da uomini, quelle imprese, quelle istituzioni, quelle culture così diverse possono sempre essere comprese: basta trovare in noi quella stessa profondità umana che le ha prodotte. 

Anche per questo molti Moderni sono tornati a ripensare, con il mito degli Antichi, che la storia e la poesia sono sorelle, figlie sempre di Mnemosine, figlie cioè della memoria, che rende abile ogni attività intelligente. Colto da una autentica «rivelazione», Zardin raccoglie e ci consegna la lezione di Pasolini (Pasolini: cosa ci ha lasciato il passato che abbiamo tradito), quando nel film La ricotta fa recitare come antica profezia di sibilla la cadenza di Io sono una forza del Passato: «Solo nella tradizione è il mio amore. Vengo dai ruderi, dalle chiese, / Giro per la Tuscolana come un pazzo, / per l’Appia come un cane senza padrone. O guardo i crepuscoli, le mattine / su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, / come i primi atti del Dopostoria, / cui io assisto, per privilegio d’anagrafe, dall’orlo estremo di qualche età / sepolta. Mostruoso è chi è nato / dalle viscere di una donna morta». 

«È una rivelazione commovente» commenta Zardin «quella che si spalanca se ci si lascia colpire dalla suggestione in un certo senso profetica dei versi». La poesia, noi aggiungiamo, compie proprio così il suo destino, di ricordare il senso del tempo alla storia che spesso, troppo spesso, lo dimentica. È in questa smemoratezza che la continuità della storia, la forza della nostra stessa identità, va in frantumi. Ecco allora, ad esempio, perché secondo Zardin diventa così urgente ricordare alla storiografia contemporanea la lezione di Gregory (Dal rifiuto di Dio all’invasione dello Stato: la lezione di Gregory): «Se si accetta la piena ragionevolezza di questo desiderio di arrivare a una sintesi che ricolleghi e metta in connessione i diversi frammenti dello sviluppo storico si comprende l’opportuna insistenza di Gregory sul fatto che non si può capire e tanto meno amare la storia senza fare spazio alle grandi continuità che ne sono il tronco di sostegno. Le continuità sotterranee sono in primo luogo le tradizioni su cui si basano gli ordinamenti che danno forma all’universo della società. Sono i legami che tengono unite le generazioni, la linfa che distribuisce il nutrimento in tutto il corpo di cui siamo le membra. Il flusso della vita che si riproduce nel tempo sta nascosto sotto i cambiamenti che le rivoluzioni della storia collettiva fanno esplodere lungo il suo cammino: perché il mondo dell’uomo è un corpo vivo, che cresce e si trasforma senza sosta, ma non può farlo che partendo dalla sua ossatura, stando dentro i limiti imposti dal codice genetico che la costituisce». Si capisce allora perché le periodizzazioni scolastiche della storia più tradizionale sono una «prigione»: perché «la storia vera non va avanti procedendo per “sostituzioni”: è piuttosto una catena che si annoda e poi si riformula, si scioglie e si ricompone assumendo sempre nuovi assetti. La storia è, al fondo di tutto, “genealogia”», fatta come una serie diversificata di «rifiuti» e insieme di «trasformazioni» degli elementi «su cui si fondava la cristianità dell’Occidente medievale». 

Dovremo dunque anche riflettere, davanti a queste affermazioni, sulle ragioni per le quali è divenuto se non impossibile quanto meno rarissimo, nell’ambito della ricerca scientifica applicata alle dimensioni umanistiche, andare oltre la forma isolata dell’articolo o, nel migliore dei casi, superare quella ad “arcipelago”, come nella raccolta di saggi, per provare invece a ricomporre quel quadro generale e sintetico che individui nella loro estensione i molti nodi e fili che fanno il presente venendo dal passato. Potrebbe essere una sfida interessante, che sarebbe bello fosse magari accolta dallo stesso autore del volume. 

Ci pare di aver inteso infatti, soprattutto in alcuni degli ultimi saggi del libro, che questa non sia solo una questione accademica o storiografica, ma tocchi strati ancora più profondi della cultura di una civiltà erede del cristianesimo, e quindi tocchi il cuore individuale di molti di noi. Ma l’«oggi dell’avvenimento cristiano», riferisce ad un certo punto Zardin commentando un discorso di papa Francesco, «non si fa da sé. Non sta in piedi da solo. Fiorisce nel presente in quanto fa riaffiorare e dà nuova vita alla forza inesauribile di propulsione che risiede nel suo legame organico con la più autentica ricchezza di un patrimonio pazientemente modellato nel fiume della storia millenaria della Chiesa» (Ecco perché a Francesco non piace l’Ancien Régime).


Danilo Zardin, “I fili della storia. Incontri, letture, avvenimenti”, Edizioni di Pagina, Bari 2014, pp. 211