Berlinguer in questione è il titolo del libro, pubblicato dalla Laterza, che Claudia Mancina dedica alla riflessione su Enrico Berlinguer. 

Claudia Mancina è una filosofa dell’etica, della politica, della famiglia, della religione, del femminismo, che ha fatto parte degli organismi dirigenti del partito e della sua rappresentanza parlamentare. Enrico Berlinguer è tornato “di moda”: Veltroni ha costruito attorno alla sua figura un “docufilm” grondante nostalgia e Casaleggio ha innalzato un elogio a Berlinguer in Piazza San Giovanni, contrapponendolo provocatoriamente all’attuale gruppo dirigente del Pd. Il libro, invece, è uno sguardo rigoroso, rispettoso, ma intellettualmente spietato sulla vicenda berlingueriana, traguardata da un prisma socio-liberal. Consta di cinque capitoli e una conclusione, che ripercorrono gli snodi della cultura politica e della linea politica di Enrico Berlinguer, dalla teoria del compromesso storico, del 1973, alla gestione del governo di unità nazionale tra il 1976 e il ’79,  alla “ritirata” sulla trincea dell’alternativa democratica, nel dicembre 1980, e della diversità, nel 1981, fino all’esito di uno scontro frontale con Bettino Craxi. 



La storia degli eventi, appena accennata, serve qui come impalcatura di una riflessione teorico-politica, la cui attualità politica consiste in un giudizio “sulla contraddittoria esperienza del post-comunismo”. Secondo l’autrice il troppo lungo congedo dal comunismo si deve alla lunga ombra di Enrico Berlinguer. Giobbe dice che l’uomo fugge dalla storia “velut umbra”. Dipende tuttavia da quanto sia lunga. La tesi di fondo di Claudia Mancina è che la cultura politica di Enrico Berlinguer è rimasta irreversibilmente prigioniera delle categorie del comunismo, nonostante l’elaborazione del “comunismo democratico” e dell'”eurocomunismo” e il “distacco” dal campo del socialismo reale. 



La prima categoria che Claudia Mancina sottopone alla cura del “rasoio di Occam” è quella di “democrazia”. La “strana idea di democrazia” di Berlinguer, quale viene ricavata dai tre articoli di Rinascita, la rivista culturale del Pci, scritti tra il settembre e l’ottobre 1973, nei quali egli lancia la proposta del compromesso storico è la seguente: non si può governare con il 51%. Si domanda retoricamente la Mancina: “Che significa affermare il valore universale della democrazia e del pluralismo politico, se poi si pensa che la maggioranza elettorale non basti per governare?”. Significa non soltanto un cupo pessimismo circa le prospettive della situazione politica di quegli anni, ma soprattutto il mancato raggiungimento del traguardo culturale e politico della normale democrazia liberale, fondata sull’alternanza dei partiti al governo, una volta che abbiano raggiunto la maggioranza, che, d’altronde, è quasi sempre e dovunque inferiore al 51%. 



Il guaio è che per accettare la democrazia liberale il Pci avrebbe dovuto cessare di essere una forza comunista, legata al campo sovietico, cioè extra-sistema. L’irriducibilità del Pci alla “fisiologica vita democratica” portava alla teorizzazione dell’impossibilità della democrazia maggioritaria. Berlinguer tentava di uscire dalla strettoia attribuendo la propria debolezza democratica alla debolezza della democrazia del Paese. Nella riproposizione di questo circolo, Berlinguer non faceva che riprendere l’idea togliattiana di “democrazia progressiva”. 

Questa consisteva nel muoversi sul terreno della democrazia formale per procedere oltre, verso una “democrazia sostanziale”, fondata su riforme di struttura, che avrebbero reso irreversibile la trasformazione economica, sociale e politica del Paese. Insomma: il socialismo come la vera e sostanziale democrazia, per approdare alla quale la democrazia formale è solo un utile vascello da bruciare, una volta toccata la nuova terra delle Indie. Come a dire: la vera democrazia è il socialismo. Parlare di “alternativa democratica”, invece che di “alternativa di sinistra” non equivaleva affatto a moderazione, ma a riserva mentale per la normale alternanza liberale delle forze, in vista di traguardi più ambiziosi: trascinare tutte le forze popolari (leggasi Dc) verso la trasformazione socialista del Paese. 

Vasto programma, non c’è che dire, decisamente autoillusorio. I tre articoli di Rinascita sono fondati su questo impianto culturale, in continuità con la togliattiana “democrazia progressiva” e con la concezione del sistema dei partiti come “democrazia che si organizza”. Da quest’ultima, osserva Claudia Mancina, derivava una concezione organicista e paternalistica della società: “Classe, partito-stato” era il circuito classico, dentro al quale al partito-principe gramsciano toccava la primazia sulla società civile. Della concezione distorta della democrazia faceva parte anche la sottovalutazione del problema della governabilità. Di qui l’insensibilità totale ad ogni ipotesi di cambiamento della legge elettorale e degli ordinamenti costituzionali. Anche soltanto sollevare il tema, come farà Craxi con l’idea della “grande riforma”, e revocare in dubbio assemblearismo e proporzionalismo sarà considerato cedimento all’autoritarismo, alla reazione. Dibattiti d’antan? Basta leggere oggi le reazioni all’idea del cambiamento di funzioni del Senato per rendersi conto che il passato si ostina a non passare; un bel pezzo del Pd, a tutt’oggi, sta in fila dietro a un noto comico, che ha raccontato urbi et orbi “la favola bella” della “Costituzione più bella del mondo”. Insensibilità che affonda le radici in un tempo archetipico, quello costituente, in cui il Pci potè godere del massimo della legittimazione e al quale occorreva tornare. 

La seconda categoria berlingueriana è quella della “diversità”. Il Pci si autodescrive culturalmente e antropologicamente diverso dalla Dc, contraddittoriamente definita come partito popolare e come partito di ladri e di corrotti; ma, soprattutto è diverso dal Psi dell’avventuriero Craxi. È nell’intervista a Scalfari del 28 luglio 1981 che Berlinguer delinea compiutamente questo tratto, che in realtà era già attivo nella proposta dell’austerità del gennaio 1977 al Teatro Eliseo di Roma e che si manifesterà nell’intransigenza con cui si opporrà, in nome della morale eroico-resistenziale dei comunisti, alla proposta di trattativa dello Stato con le Br per salvare la vita di Moro. Dopo la sconfitta della prospettiva del compromesso storico, Berlinguer “scarta sull’etica”. Denunciando l’occupazione dello Stato da parte dei partiti, Berlinguer proclama ad alta voce “la diversità comunista”. In che cosa consista, lo dice bene Pier Paolo Pasolini, citato da Claudia Mancina: “Il Partito comunista italiano è un paese pulito in un paese sporco, un paese onesto in un paese disonesto, un paese intelligente in un paese idiota, un paese colto in un paese ignorante, un paese umanistico in un paese consumistico”. 

Ma, fa notare l’Autrice, alla fine Berlinguer, interpellato sulle cause politiche della questione morale, risponde: “…la causa prima e decisiva: la discriminazione contro di noi”. La risposta condensa il massimo del moralismo e del politicismo. Il “carismatico segretario” non è neppure lontanamente sfiorato dal dubbio che l’onnipervasività dei partiti sia dovuta ad un assetto istituzionale e costituzionale che ha permesso loro di diventare padroni dello Stato e di pezzi decisivi della società civile, così che solo una ridefinizione di quegli assetti può aprire la strada ad un’etica pubblica rinnovata. È certamente molto comunista pensare che il Pci soltanto può essere il salvator mundi. C’è dietro tutto il pensiero della Terza internazionale, soprattutto quello del VII Congresso dell’Internazionale comunista: il crollismo e la funzione soteriologica dei partiti comunisti. Ma, soprattutto, è evidente la convinzione di essere antropologicamente ed eticamente superiori al resto del Paese. Convinzione che animerà sia l’antipolitica sia l’antiberlusconismo.

Quelle sopra analizzate non sono le uniche categorie teorico-politiche che Claudia Mancina passa al vaglio more geometrico. Le altre sono eurocomunismo, comunismo democratico, socialdemocrazia, austerità, consumismo… benché sia evidente che esse sono solo facce dello stesso prisma ideologico.

Ai lettori il piacere e le sorprese della lettura. Ciò che conta è che queste categorie hanno comandato le scelte politiche fondamentali del quindicennio berlingueriano: l’unità nazionale, la “svolta di Salerno”, il rifiuto della socialdemocrazia, la rottura frenata, politica, ma non culturale, con l’Urss, il violento attacco a Crax, eccetera.

Ciò che rende politicamente attuale il libro è l’affermazione documentata che quelle categorie hanno continuato a comandare tutto il periodo del post-comunismo fino a Renzi, rendendone il cammino accidentato e, alla fine, inconcludente. “Avendo costruito un’identità post-comunista che non era altro che quella comunista, il partito dalemiano si ritrova con gli stessi problemi di legittimazione del vecchio Pci”. A giudizio di Claudia Mancina, si deve registrare il paradosso per il quale D’Alema, spesso critico di Berlinguer − post mortem, si intende − è il dirigente più continuista; mentre Veltroni, che oggi rilancia la nostalgia per Berlinguer, è quello che ha tentato la cesura più profonda con il berliguerismo.

Scherzi e nemesi della storia. Si deve anche osservare che il saggio non nomina mai Renzi per nome e cognome. Riserva mentale? O semplicemente è stato scritto prima dell’ascesa al governo di Renzi?