Una cosa è operare per istituzionalizzare la poliarchia e riequilibrare posizioni di dominio anacronistiche, altro è proclamare la sentenza di morte della “mano invisibile”.

Il 22 luglio del 1944, in una città del New Hampshire, molto probabilmente fino a quel momento conosciuta solo ai suoi abitanti, si firmavano gli accordi di Bretton Woods. Il problema economico fondamentale del dopoguerra, e che la conferenza di Bretton Woods intendeva affrontare, era evitare un sistema di cambi flessibili che avrebbero potuto alimentare le ragioni del conflitto internazionale. Per scongiurare un tale esito si diede inizio ad un processo istituzionale, finalizzato alla creazione di istituzioni internazionali e ad un sistema di convertibilità della moneta a cambio fisso.



Nella primavera del 1944 vennero presentati ai paesi membri delle Nazioni unite il Piano Keynes e il Piano White, dal nome dei due principali estensori. Mentre il primo proponeva un’unione internazionale di Clearing, il secondo indicava un fondo internazionale di stabilizzazione. In entrambi i casi, lo scopo era di individuare un meccanismo per risolvere il problema economico del dopoguerra: saldo del deficit, bilancia dei pagamenti in deficit, restrizione della domanda estera, recessione internazionale. In definitiva, con gli accordi di Bretton Woods si intese ricercare un meccanismo di cambio cooperativo globale per ristabilire un equilibrio tra le singole nazioni.



Con il Piano Keynes emergeranno le proposte di una banca centrale soprannazionale e del Bancor, un’unità di moneta internazionale, per compensare il deficit della bilancia dei pagamenti. L’obiettivo era di istituzionalizzare un governo mondiale della moneta mediante incentivi e disincentivi, rispettivamente, per deficit e surplus. Il Piano White proponeva un fondo di stabilizzazione che avrebbe potuto concedere crediti a paesi con deficit da bilancia dei pagamenti, previa compatibilità della politica economica, nonché si sarebbe agganciata la valuta di ogni Stato membro al dollaro e quest’ultimo all’oro: cambio aureo.



Il 1° luglio del 1944 a Bretton Woods ebbe inizio la Conferenza Monetaria e Finanziaria Internazionale delle Nazioni Unite che si concluse il 22 luglio con un compromesso tra Keynes e White e la nascita del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e della Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Birs). La prima istituzione rispondeva alla proposta White, la seconda a quella di Keynes. In pratica, si stabiliva la convertibilità delle valute in dollari e l’aggancio di quest’ultimo all’oro, con un’oscillazione massima dell’1%. Una volta stabilita la parità monetaria nessuno l’avrebbe potuta modificare, se non per correggere uno squilibrio fondamentale e dopo aver accolto i suggerimenti del Fondo. La difesa della parità bilaterale era affidata alle banche centrali che, mediante interventi nel mercato monetario, acquistando o vendendo, avrebbero ricondotto la valuta dentro i parametri.

Il meccanismo che ne verrà fuori sarà quello della doppia convertibilità, detto Gold Exchange Standard, in forza del quale la valuta statunitense assumerà il centro del sistema monetario internazionale, diventerà mezzo di pagamento e strumento di riserva.

Il meccanismo prevedeva che i singoli paesi si impegnassero a convertire la propria valuta in dollari ad un prezzo fisso, riservandosi il diritto (minaccia) di convertire i dollari in oro al prezzo concordato. Ad ogni modo, la minaccia non fu sufficiente e ragioni politiche, unite a rigidità interne, decretarono il fallimento del meccanismo che entrò in vigore solo alla fine del 1958. 

Negli anni 60 aumentò il costo di produzione dell’oro e il dollaro si deprezzò e i dollari provenienti dal deficit dei pagamenti divennero fonte di liquidità internazionale: la Federal Reserve avrebbe dovuto accrescere le sue riserve auree in misura proporzionale all’emissione di dollari, ma il cambio, essendo anacronistico, divenne insufficiente a remunerare la produzione. L’aumento della spesa pubblica statunitense, anche per finanziare la guerra in Vietnam e il crescente indebitamento fecero aumentare le richieste di convertibilità del dollaro in oro. Di fatto, il 15 agosto del 1971, il presidente Richard Nixon dichiarò la sospensione della convertibilità del dollaro in oro. Alla fine degli accordi si giunse nel dicembre del 1971 con lo Smithsonian Agreement che comportò la svalutazione del dollaro e il ritorno a cambi fluttuanti. La fine degli accordi di Bretton Woods non significò lo smantellamento delle istituzioni che quegli accordi avevano sancito e, sebbene con compiti diversi, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Centrale sopravvissero, mentre il General Agreement on Tariff and Trade (Gatt) nel 1995 venne sostituito con il World Trade Organization (Wto).

Molta acqua è passata sotto i ponti da allora ad oggi e l’istituzione della moneta unica europea ha di fatto modificato lo scenario economico e monetario internazionale. La crisi finanziaria ed economica registrata dal 2007 ad oggi e l’emergere di nuove economie (Brics) hanno spinto alcuni esperti e operatori economici a proporre la convocazione di un grande summit, una sorta di nuova Bretton Woods per ridiscutere le regole del gioco economico a livello globale. In tal caso, credo sia opportuno avere un’idea chiara sull’oggetto e sul metodo dei lavori.

Qualora il tema fosse riequilibrare il peso delle economie tradizionalmente avanzate con quello delle economie dei paesi emergenti, registriamo un significativo passo avanti con gli accordi di Fortaleza dello scorso 16 luglio e la costituzione della cosiddetta banca Brics, articolata nella New Development Bank (Ndb) e in un Fondo di riserva monetario denominato Contingent Reserve Arrangement (Cra – Accordo sui Fondi di Riserva). La banca avrà sede a Shangai e sarà operativa dal prossimo anno, avrà un presidente dei governatori russo, un presidente del consiglio di amministrazione brasiliano, mentre il presidente della banca sarà indiano. Alla nuova banca potranno aderire anche altri paesi delle Nazioni Unite, sebbene la quota dei Brics non potrà scendere sotto il 55%. 

Lo scopo dichiarato è di “rafforzare, sulla base di sani principi bancari, la cooperazione tra i Paesi Brics, integrare gli sforzi delle istituzioni finanziarie multilaterali e regionali per lo sviluppo globale, contribuendo a conseguire l’obiettivo di una crescita forte, sostenibile ed equilibrata”. 

In pratica, come registrato da alcuni commentatori (non molti sinceramente, cfr. Tino Oldani, “Putin e i Paesi Brics fondano una Banca che sotterra Bretton Woods e rivoluziona la governance mondiale. Sui giornaloni, neppure una riga”, Italia Oggi, 18 luglio 2014), si tratta della nascita di una nuova Banca mondiale e del superamento della logica di Bretton Woods, che vedeva gli Stati Uniti e il dollaro al centro del sistema globale, dotata di ampie riserve, che si pone come alternativa al Fmi e alla Banca Mondiale, e crea le premesse di una nuova architettura e governance finanziaria globale, “dove gli Stati Uniti non potranno più fare il bello e il cattivo tempo”.

Diverso il discorso se per “nuova Bretton Woods” intendiamo l’operazione ingegneristica di government, tesa a pretendere di voler ridisegnare a tavolino “l’architettura del nuovo capitalismo”, un’autorità politica ed economica globale, questa volta immune dai limiti e dalle imperfezioni che hanno sancito la crisi dell’attuale sistema. Per procedere in questa direzione, in primo luogo, bisognerebbe condividere il giudizio sul capitalismo e sulle ragioni della crisi e, ad oggi, non mi sembra che ci sia una simile comunanza di vedute, ma soprattutto dovremmo essere d’accordo sull’ipotesi che l’attuale crisi stia aprendo ad un nuovo modello economico che prescinda dal libero mercato globale, ovvero se non stia, più realisticamente, correggendone le storture, per consentire alle istituzioni di funzionare meglio.

Ammesso e non concesso che abbiano ragione coloro i quali sostengono che la gravità dell’attuale crisi necessiti di una rivoluzione paradigmatica e non soltanto di profonde riforme, al momento, credo che nessuno possieda gli strumenti analitici, la conoscenza e la sufficiente prospettiva storica per prevedere quale sia, da un punto di vista sistemico, l’esito dell’attuale crisi. Nel 1944 a Bretton Woods era fisicamente e culturalmente crollato un mondo, era definitivamente fallita un’idea di nazione, c’erano dei vincitori e dei vinti, l’oggetto del “sinodo” era chiaro a tutti ed anche l’individuazione del metodo dei lavori appariva ragionevolmente condiviso. 

Dunque, una cosa è operare per istituzionalizzare la poliarchia e riequilibrare posizioni di dominio anacronistiche, altro è proclamare la sentenza di morte della “mano invisibile”. Alcuni sostengono che l’attuale crisi dimostrerebbe che abbiamo sempre più bisogno di una “mano visibile” e che una nuova Bretton Woods dovrebbe orientare gli Stati in questa direzione. È evidente che è entrata in crisi una certa interpretazione anarcoide del mercato ed è giusto evidenziarne i limiti teorici. Ad ogni modo, sappiamo che l’espediente della “mano invisibile” è stato elaborato da Smith “non tanto e non solo” per consolidare teoricamente il laissez faire, quanto per evidenziare “anche e soprattutto” un dato epistemologico da sempre conosciuto dagli studiosi delle scienze sociali: il problema delle conseguenze inintenzionali delle azioni intenzionali. Una nuova Bretton Woods, alla luce della teoria della “mano invisibile”, dovrebbe tenere conto in primo luogo delle conseguenze non intenzionali dei piani posti in essere dal “grande architetto” di turno.

In breve, in termini economici, esistono azioni “buone in sé” che ci esimano dalla responsabilità di controllarne le conseguenze?, ovvero dovremmo preoccuparci anche delle conseguenze non intenzionali di azioni poste in essere da persone mosse delle migliori intenzioni? La saggezza popolare a questo punto offre una miriade di proverbi, di aforismi e di aneddoti che tutti conosciamo. 

Il broker che avesse agito in vista delle conseguenze non solo su di sé, ma anche su altri sé, avrebbe contribuito a costruire un sistema finanziario più virtuoso. Dunque, il “sistema” dipende dalla prospettiva morale del broker e dei tanti broker, del banchiere e dei tanti banchieri, dell’imprenditore e di tanti imprenditori, del governante e dei tanti governanti. Le regole sono espressione di una determinata prospettiva antropologica, la quale non è mai neutra, è sempre figlia di una visione etica. Ecco perché non mi convince una nuova Bretton Woods che si prefigga obiettivi salvifici, mentre trovo estremamente interessante la nascita di nuove istituzioni che di fatto modificano dal di dentro il sistema economico internazionale; se la sfida è morale, con quali arnesi andremmo a sostituire un sistema che di per sé non nega la virtù, semmai non la favorisce, non la premia e, fortunatamente, non la impone, con un altro sistema altrettanto imperfetto? Allora, dovremmo adoperarci per correggere il sistema globale sempre più poliarchico e rendere più innocue possibili le azioni viziose, attraverso un sistema di governance costituito da pesi e contrappesi (le regole ed i controlli) che Sabino Cassese ha indicato con l’espressione “Global Polity“. Tuttavia, esisterà mai un sistema politico-economico (fatto di/da uomini per altri uomini) che “renda impossibile il male”, in forza del quale l’uomo non possa che agire sempre in modo virtuoso per sé e per gli altri ed in virtù del quale tale azione virtuosa rappresenti un bene per tutti e per ciascuno? Ovvero non sarebbe anche questa una versione nobile dell’onnipresente tentazione del serpente?