All’interno di una famosa serie Écrivains de toujours (formato tascabile), edita dalle Éditions du Seuil a Parigi, figura un libricino (190 pagine appena, con molte illustrazioni) di Albert Béguin, Bernanos par lui-même, del 1954. Certo, ho letto qualche libro di Georges Bernanos: il suo Diario di un curato di campagna, Sotto il sole di Satana, Nuova storia di Mouchette, Dialoghi delle Carmelitane. Alcuni, anche più di una volta. Sono degli abissi, bisogna tornarvi più e più volte per cercare di toccarne il fondo. Però, mai avevo letto un libro che presentasse questo grande romanziere del secolo scorso. Tramite un articolo su una rivista, sono venuta a conoscenza di certi propositi dell’autore che mi hanno fortemente colpito. Allora, mi sono procurata il libricino in questione, dal quale erano prese le citazioni dell’articolo. Una rivelazione per me.
Esso parla della vita di Bernanos, senza, tuttavia, poter essere definito una biografia propriamente detta. Per la maggior parte del tempo, è Bernanos stesso che parla e che, mediante estratti dei suoi romanzi, del suo diario e delle sue lettere, esprime chi è lui nel suo intimo, quello che per lui è importante e che cosa lo spinge a scrivere.
Quando è già malato, sei mesi prima di morire, Bernanos annota, sul suo diario, in data 24 gennaio 1948: «Egli vuole, ma noi non sappiamo quel che vogliamo, noi non ci conosciamo, il peccato ci fa vivere alla superficie di noi stessi, noi non rientreremo in noi che per morire, ed è là che Egli ci attende» (p. 11). Lui aspetta il bambino che eravamo una volta e che abbiamo dimenticato, rinnegato, ma mai del tutto, perché non siamo in grado di estirparlo completamente. Dio aspetta pazientemente che questo bambino riprenda il sopravvento. Ed egli lo farà se noi glielo permettiamo: «… Nondimeno, venuta l’ora, sarà lui a riprendere il posto alla testa della mia vita, radunerà i miei poveri anni sino all’ultimo, e come un giovane capo coi suoi veterani, raccozzando la sfera in disordine, entrerà per primo nella Casa del Padre» (p. 10, estratto della prefazione de I grandi cimiteri sotto la luna).
Sono stati i sogni e le angosce della sua infanzia – soprattutto la sua smisurata paura della morte, a causa di una cattiva salute – le ribellioni della sua giovinezza, che hanno dato vita a gran parte dei suoi personaggi: Bianca de la Force nei Dialoghi delle Carmelitane, Mouchette, Chantal e Séraphita, l’altra nipote nel Diario di un curato (era così che Bernanos chiamava il suo romanzo, al quale era molto attaccato), il curato stesso, questo ingenuo con la sua anima bambina…
Bernanos scrive: «Non appena prendo la penna, ciò che mi si ridesta subito dentro è la mia infanzia, la mia infanzia così normale, così simile alle altre e da cui, tuttavia, prendo tutto quello che scrivo come una fonte inesauribile di sogni. I volti e i paesaggi della mia infanzia, tutti mescolati, confusi agitati in questo spazio di memoria incosciente che fa di me quello che sono, un romanziere e, se Dio vuole, anche un poeta» (p. 176). L’universo come lui lo concepisce, fa notare Albert Béguin, «non si divide tra buoni e cattivi, ma tra i santi, che, sono rimasti fedeli alla propria infanzia, e gli infelici che l’hanno perduta» (p. 41). E che, prima o poi, «si voltano verso di essa» e, anche nei momenti più bui della propria vita, hanno nostalgia di essa o la ritrovano stando vicini ai «santi» che li circondano.
A proposito del suo Diario di un curato – iniziato nel 1934 – Bernanos, un anno dopo, osserva: «Ho deciso di scrivere il diario di un giovane curato, al suo ingresso in una parrocchia. Egli si complica la vita, fa il diavolo a quattro, fa progetti mirifici, naturalmente destinati al fallimento, si lascia più o meno abbindolare da degli imbecilli, delle depravate, dei mascalzoni, e quando crederà che tutto sia perduto, avrà servito il buon Dio nella misura stessa in cui non lo avrà fatto» (p. 174). Nel 1936, terminato il libro, aggiunge, in risposta a quelli che affermano il contrario, «C’è il curato di Torcy, il dottor Delbende, la Contessa, Chantal, la cara piccola pollastrella dello spretato [alla fine del romanzo] – mai, in nessun mio libro, ho inserito (?) tanti bambini ed eroi come in questo» (p.176). E lo stesso anno: «Sì, amo questo libro. Lo amo come se non facesse parte di me (?)». Chi non lo ama (?), anche se la lettura di questo grande romanzo non è per niente facile!