L’ultima fatica letteraria di Francesco Roat dopo I giocattoli di Auschwitz, pubblicato lo scorso anno dalla casa editrice Lindau, intriga e interroga sin dal titolo: Hitler mon amour, editore Avagliano. Il pensiero correrebbe subito alle folle oceaniche del popolo tedesco ebbre di nazionalsocialismo, ai giovani soldati pronti a immolarsi sui campi di battaglia per la supremazia della razza ariana e del proprio Führer. A riportare alla mente e negli occhi le immagini del Führer con lo sguardo imbevuto di lucida follia che aizza la folla, gli immancabili vessilli del Terzo Reich, i corpi pelle e ossa privi di vita dei deportati nei campi di sterminio. 



Ma Roat, per nulla autore generalista, lega il titolo del suo romanzo alla relazione-dipendenza di una donna dal dittatore: Eva Braun. E lo fa attraverso la narrazione di un diario che immagina scritto freneticamente da Eva nelle ultime ventiquattr’ore, all’interno del bunker sotto la Cancelleria del Führer, durante la conquista di Berlino da parte dell’Armata Rossa. Eva ripercorre dal principio l’incontro con l’uomo che ha segnato la sua vita. Il suo è un “amore” apparentemente vissuto nell’ombra: un passo di lato, una parola in meno, Adolf, prima di tutto. Ma non mancano i desideri, le passioni, le speranze: anche di un casto bacio sulle guance. Ciò che a prima vista si palesa è la figura di una donna che a tratti inquieta per la dedizione totale espressa nei confronti del Führer. In questo Eva è forse dissimile da tanti “amori” patologici o “criminali” di cui le cronache dei nostri tempi sono zeppe e che quasi passano nei titoli di coda dei telegiornali senza fare più notizia. 



Eva incarna l’amante perfetta del mostro? Il suo alter ego incredibilmente inconsapevole del suo essere mostruoso? O, al contrario, è da prendere per veritiera l’ipotesi che Eva semplicemente non sapesse, che fosse all’oscuro di quanto perpetrato dal suo falso mentore e dal suo stesso popolo? Ci sono forse testimonianze contraddittorie a riguardo? Il punto non è questo; e neppure il nodo intricato e la matassa da sciogliere.

Ciò che colpisce, nella sua sconvolgente e a tratti ingenua semplicità, è la personalità di Eva. La coerenza con cui porta a termine il suo personale disegno: legare il proprio destino a quello del Führer, al tumore della storia, sino alla scelta fatale, al punto di non ritorno, al gesto estremo: darsi la morte. In altri contesti si potrebbe intravedere nell’atto di Eva del romanticismo, se non si trattasse di Hitler, appunto. Roat sceglie consapevolmente di attraversare l’orrore. Lascia che si veda, che si tocchi, senza farsi coinvolgere o emettere giudizio. È questo l’aspetto nodale dell’intero libro: ha già giudicato la storia, e lo ha fatto secondo il metro dei diritti fondamentali che spettano ad ogni essere umano. 



Nemmeno s’insinua il minimo dubbio di un revisionismo storico o del tentativo (perché poi?) di assolvere in parte Eva Braun. L’intento di Roat, senz’altro cristallino e univoco, è quello di favorire la comprensione della tragica, enigmatica figura di Eva Braun. Non fosse che, trattandosi di Eva Braun e Adolf Hitler, si aprono inevitabilmente una vastità di scenari che elevano a potenza la storia narrata da Roat: il ruolo di chi affianca il potere in nome dell’amore (ma lo si può definire veramente tale?), la lacerante schizofrenia dei tedeschi di quei tempi, i quali, per dirla con parole dell’autore: si muovevano agevolmente fra educazione raffinata e campi di sterminio, fra l’illusione di poter la Germania divenire faro e guida dell’Occidente e la realtà delle macerie in cui l’Europa fu ridotta. Non sfugga infine al lettore la saldezza della struttura del romanzo, la tensione con cui si snoda la trama, il modo con cui sono calibrate e centellinate il ritmo e le pause, la padronanza dello stile.


Francesco Roat, “Hitler mon amour”, Avagliano, Roma, 2014