La lotta irlandese per l’indipendenza fu una storia secolare di sudore e sangue che scatenò una spirale di violenza. E, quando l’indipendenza infine giunse, fu l’inizio di nuovi conflitti e, nuovi spargimenti di sangue.
Uno degli episodi chiave fu la “ribellione di Pasqua” del 1916. La Grande Guerra aveva rallentato le procedure per il cosiddetto Home Rule. Disperando di una soluzione diplomatica, ancora una volta rinviata a data da destinarsi, un gruppo estremista chiamato Irish Republican Brotherhood prese dunque contatti con la Germania per ottenere soldi e armi e scatenare una sorta di rivoluzione (non dissimilmente da quanto poi accadde in Russia: una crisi interna nel mezzo di una crisi esterna). Fu così che il 24 aprile 1916 un gruppo di milleduecento uomini si impossessò con le armi di diversi punti strategici nel centro di Dublino e proclamò la repubblica.
Si era in guerra: anche per questo l’esercito britannico si mobilitò in fretta e rispose con l’artiglieria inviando, a ondate diverse, ben sedicimila uomini e istituendo la legge marziale. Dublino visse quei sei giorni in un clima di guerra civile: esplosioni, macerie, morti e feriti da ambo le parti. I ribelli si arresero infine incondizionatamente il 29 aprile; il tutto era costato circa cinquecento morti e centinaia di feriti. Seguirono, in maggio, le fucilazioni dei capi dell’insurrezione.
Nonostante molti irlandesi non ne avessero condiviso i metodi, la sanguinosa ribellione e la sua altrettanto sanguinosa repressione riaccesero i focolai di nazionalismo sopiti: subito dopo la fine della grande guerra, nel 1918, gli indipendentisti ottennero la maggioranza tra gli irlandesi al parlamento di Londra; tanto che, pochi mesi dopo, l’Irlanda tornò a proclamarsi repubblica. Seguì una vera e propria guerra di indipendenza (1919-1922) contro la Gran Bretagna, scatenata da un attentato terroristico in cui vennero uccisi (di proposito) due poliziotti britannici che sorvegliavano un convoglio.
Come reagirono, davanti a tutto ciò, gli intellettuali irlandesi?
Molti presero parte prima alle sommosse e poi alla guerra; molti, come sempre accade, ne furono addirittura gli ideatori. Altri deplorarono la violenza che ne scaturì, ma rimasero saldi nel patriottismo e nel desiderio di indipendenza da un giogo di quattro secoli; altri ancora ebbero un atteggiamento più distaccato e ambiguo. Tutti, naturalmente, compresi quelli che vivevano all’estero, seguirono da vicino le vicende del loro Paese.
Uno dei poeti più famosi dell’epoca è W.B. Yeats, una figura di grande complessità che in quel periodo si muoveva tra i circoli esoterici e quelli del Celtic Revival letterario. In occasione della ribellione di Pasqua egli scrisse la famosa Easter 1916, densa di sentimenti e impressioni ambivalenti. Nonostante si trovasse in Francia al tempo della rivolta, si sentì estremamente coinvolto, sia perché era un convinto nazionalista, sia perché conosceva personalmente diversi degli organizzatori ed era rimasto sconvolto dalle fucilazioni seguite agli arresti. Pur deplorando la violenza, egli individuò “una bellezza terribile” che nasceva da quello scempio: il sentimento patriottico riacceso che avrebbe portato alla coesione nella lotta, perché da una generazione di modesti impiegati e umili borghesucci erano nati gli eroi di una nazione. L’episodio contribuì al suo distacco definitivo dalla Irish Republican Brotherhood; il che non gli impedì di restare un convinto nazionalista e, nel 1922, di essere nominato senatore della neonata repubblica.
Un altro famoso intellettuale irlandese, James Joyce, visse gli eventi traumatici della sua patria ancor più da lontano, nell’ “esilio volontario” che lo aveva portato a Trieste (a insegnare l’inglese a Svevo), a Zurigo, a Parigi. Ovunque purché non fosse in quel Paese provinciale e retrogrado che era il suo. Come e più di Yeats, era un cittadino del mondo.
Pur essendo, come lui, un libertario, e in un senso che oggi definiremmo radicale, Joyce rimase però sempre tiepido nei confronti della lotta per l’indipendenza irlandese; perché, a suo avviso, il problema era un altro. Secoli di oppressione avevano reso i suoi connazionali schiavi per natura, certamente dell’Inghilterra, ma, soprattutto, della Chiesa cattolica. L’una aveva forgiato i ceppi del corpo, l’altra quelli della mente. Era vero, gli inglesi avevano “acceso le sue fazioni e depredato i suoi tesori” (come scrisse egli stesso nei Saggi Critici); ma i ceppi mentali della Chiesa erano più insidiosi e tenaci di quelli politici ed economici: “Non vedo il vantaggio di tuonare contro la tirannia inglese quando quella romana occupa il palazzo dell’anima”. Parafrasando il famoso discorso del Bruto Shakespeariano, il problema non era che Joyce amasse la sua patria meno degli altri: era piuttosto che odiava la Chiesa più di tutti loro messi insieme.
La coscienza del suo popolo andava creata, forgiata, ed egli, come un nuovo demiurgo, non si tirò indietro. Con la sua arte, Joyce avrebbe potuto salvare l’Irlanda da quella schiavitù totalizzante. Per questo, quando l’editore inglese a cui si era rivolto per la pubblicazione dei Dubliners si era dimostrato restio a includere tutti gli espliciti riferimenti sessuali, egli gli aveva scritto: “Credo seriamente che Lei ritarderà il corso della civilizzazione dell’Irlanda impedendo al popolo irlandese di darsi una bella occhiata attraverso la mia lente ben pulita”. Le perplessità dell’editore durarono ancora ben otto anni, ma alla fine Joyce ebbe quel che voleva.
Liberazione sessuale alla Lawrence, dunque, con i soliti cliché che, attraverso il ’68, sarebbero giunti indenni fino ai giorni nostri? Dipende dai punti di vista; soprattutto tenendo conto del fatto che Joyce proprio tanto libero non era, vista, ad esempio, la sua pluriennale dipendenza dai bordelli. Ma l’Irlanda non pendeva dalle sue labbra; e, pur tra sangue e sudore, trovò una via diversa.