Nella sua lettera ai partecipanti al XIX Congresso dell’Associazione Internazionale di Diritto Penale e del III Congresso dell’Associazione Latinoamericana di Diritto penale e Criminologia, papa Francesco ha somministrato vere pillole di saggezza per una nuova giustizia penale, capaci di condensarsi in una proposta che vale per tutti gli uomini, credenti o non credenti.
Si tratta di idee che il Pontefice svela di avere nell’animo, ma che nel contempo fanno parte del tesoro della Scrittura e dell’esperienza millenaria del popolo di Dio.
A fronte degli errori degli uomini, dovuti alla “fragilità del cuore”, la risposta del diritto penale richiede una “messa a fuoco multidisciplinare”, che cerchi di integrare e di armonizzare tutti gli aspetti che confluiscono nella realizzazione di un atto pienamente umano, libero, consapevole e responsabile.
Tre sono stati e devono continuare ad essere gli elementi che caratterizzano la risposta al peccato (cioè al reato): 1) la soddisfazione o riparazione del danno causato; 2) la confessione, attraverso la quale l’uomo esprime la propria conversione interiore; 3) la contrizione per giungere all’incontro con l’amore misericordioso e risonante di Dio.
La prima idea discende direttamente da ciò che il Signore, poco per volta, ha tentato di insegnare al suo popolo, e cioè che deve esistere un’asimmetria necessaria tra il delitto e la pena.
Non si pone rimedio ad un occhio o a un dente rotto rompendone un altro: si tratta di rendere giustizia alla vittima, non di giustiziare l’aggressore.
È dunque sbagliato continuare a pensare che i delitti si risolvono quando si cattura e condanna il delinquente, senza prestare sufficiente attenzione ai danni provocati alla situazione in cui restano le vittime. L’esperienza dimostra d’altronde che l’aumento e l’inasprimento delle pene non risolvono i problemi sociali e non riescono a diminuire i tassi di criminalità.
Ecco dunque il giusto richiamo alla responsabilità dei mezzi di comunicazione, il cui compito è di informare correttamente e non quello di contribuire a creare allarme o panico sociale quando si danno notizie su fatti delittuosi: ad essere in gioco sono la vita e la dignità delle persone, che non possono diventare casi pubblicitari, spesso addirittura morbosi, condannando i presunti colpevoli al disprezzo sociale prima che vengano giudicati, o forzando le vittime, per fini sensazionalistici, a rivivere pubblicamente il dolore provato.
Il Papa mette direttamente il dito sulla piaga: come anche di recente è stato efficacemente notato (da Glauco Giostra, in Questione carceraria, insicurezza sociale e populismo penale, Questione giustizia,, magistraturademocratica.it), i nostri mezzi di informazione suonano, un giorno sì e l’altro pure, note sensazionalistiche ed allarmistiche, massicciamente occupati come sono a dare notizie relative ai più efferati misfatti, con morbose “zoomate” che indugiano sul dolore delle vittime e dei loro congiunti.
Si tratta di un’informazione banalizzante, emotiva ed ansiogena, quasi sempre disgiunta da un attento studio del dato di realtà e da una intelligenza del suo stesso significato: non si potrebbe predisporre terreno più adatto su cui far prosperare il populismo penale, intendendo con questa locuzione la tendenza politica ad apprestare placebo legislativi che fingano di rimuovere le cause delle ansie collettive suscitate da episodi di cronaca nera, ma che in realtà mirano soltanto a captare facili consensi.
Così al primo reato commesso da soggetto in misura alternativa, o al primo riacutizzarsi, reale o mediatico, di un certo fenomeno criminale, si riaprono i consueti scenari: cubitali titoli di giornali e spettacolarizzazione televisiva del dolore confermeranno molti cittadini nei loro latenti timori, alimentandoli; timori che troveranno non disinteressata udienza in quei politici specialisti nel cogliere ogni opportunità demagogica offerta dalla nostra democrazia emotiva.
L’altro grande e modernissimo spunto sul quale il Papa riflette è quello che fa leva sulla necessità diriparazione del danno causato.
La riparazione-mediazione costituisce il perno sul quale è destinato ad essere ripensato funditus il sistema sanzionatorio del futuro, secondo la direttrice già in parte imboccata dalla legge 28 aprile 2014, n. 67 (“Delega al governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili“). In particolare l’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova prevede che l’imputato assuma specifici impegni al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato, considerando a tal fine il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni, nonché le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità ovvero all’attività di volontariato di rilievo sociale.
L’altra proposta, l’unica veramente in grado di organizzare un’efficace difesa contro la recidiva, passa attraverso l’idea di favorire nel colpevole il riconoscimento della propria colpa: per fare questo, è però necessario fornirgli tutti gli aiuti del caso affinché egli maturi, non si scoraggi e riesca a reimpostare la propria vita senza restare schiacciato dal peso delle sue miserie.
Quanta abissale distanza esista tra questa prospettiva ed il clima forcaiolo (“Buttiamo via le chiavi”) che aleggia sempre più spesso anche tra i credenti, non è davvero il caso di sottolineare.
D’altronde, osserva il Papa, non poche volte la delinquenza affonda le sue radici nelle disuguaglianze economiche e sociali e nelle reti della corruzione e del crimine organizzato, che cercano complici tra i più potenti e vittime tra i più vulnerabili.
Per prevenire questo flagello, non basta dunque avere leggi giuste, ma è necessario formare persone responsabili e capaci di metterle in pratica: nulla di più efficace, a mio avviso, per declinare al meglio il paradigma dello scopo rieducativo della pena, stampato nel 3° comma dell’art. 27 della nostra Carta.
L’auspicio finale offre all’attenzione degli studiosi di diritto penale il modello della giustizia divina, la cui essenza è quella di offrire al peccatore il perdono, presentandosi dunque come una giustizia superiore, allo stesso tempo equanime e compassionevole, senza che vi sia contraddizione tra questi due aspetti.
Il perdono non elimina né sminuisce l’esigenza della correzione, propria della giustizia, e non prescinde neppure del bisogno di conversione personale, ma va oltre, cercando di ristabilire i rapporti e di reintegrare le persone nella società.
Le misure penali dunque non devono accontentarsi di reprimere, dissuadere ed isolare quanti hanno causato il male, ma devono aiutare i delinquenti a riflettere, a percorrere i sentieri del bene, ad essere persone autentiche che, lontano dalle proprie miserie, diventino esse stesse misericordiose.
Ecco dunque l’auspicio della Chiesa: che la giustizia sia umanizzatrice e genuinamente riconciliatrice, portando il delinquente, attraverso un cammino educativo e di coraggiosa penitenza, alla riabilitazione e al totale reinserimento nella comunità.
Quanto bello sarebbe, aggiunge il Pontefice, se il perdono non restasse unicamente nella sfera privata, ma raggiungesse una vera dimensione politica e istituzionale per creare così rapporti di convivenza armoniosa.
Il messaggio del Papa si chiude con la preghiera fatta a Dio di riversare il dono della saggezza agli studiosi di diritto penale. Osservo che tale preghiera sarebbe superflua sol che quegli stessi studiosi accogliessero le proposte di Francesco per orientare in modo totalmente diverso dal passato la politica penale degli Stati, superando la concezione carcerocentrica ed abbracciando decisamente la rivoluzionaria prospettiva così ben delineata in sole tre paginette di vera “saggezza penale”.