Franz Werfel (1890-1945): romanziere, poeta e drammaturgo austriaco d’origine ebraica fu in gioventù amico di Franz Kafka ed ebbe il privilegio di frequentare alcuni tra i più grandi autori di lingua tedesca della sua epoca, quali Hofmannstahl, Rilke, Roth, Schnitzler, di cui non riuscì tuttavia ad eguagliare la fama, pur godendo di grande notorietà in Germania nel lungo intervallo tra le due guerre mondiali. Unitosi in matrimonio nel 1929 con la vedova di Gustav Mahler (Alma Schindler, già amante di Oskar Kokoschka, la quale per sposare Werfel divorziò dal celebre architetto Walter Gropius), quattro anni dopo raggiunse l’apice del successo col libro I quaranta giorni del Mussa Dagh: romanzo epico/storico sul genocidio armeno ad opera dei turchi. Dopo aver vissuto con la moglie a Berlino e a Vienna, nel 1938 Werfel a causa delle leggi razziali fu costretto a emigrare: prima in Francia, poi negli Stati Uniti, dove rimase sino alla morte. Tra le sue numerose opere – scritti narrativi e poetici, drammi storici e saggi – spiccano per intensità espressiva i romanzi: Nel crepuscolo di un mondo (1937) e Una scrittura femminile azzurro pallido (1941), ultimamente riedita da Adelphi nell’ottima traduzione di Renata Colorni.



Peculiare in questo testo è la duplice ambientazione temporale. Quella dei ricordi del protagonista – che fanno riferimento ad una giovinezza all’insegna della voglia d’emergere nel “mondo incantato” ma cinico della finis Austriae -, calata appunto negli anni che precedettero il crollo della duplice monarchia austro-ungarica. E quella riferibile all’attualità romanzesca, datata Vienna 1936, giusto due anni prima che l’Austria fosse annessa alla Germania e che l’antica capitale asburgica, nell’epoca intollerante dell’irresistibile ascesa nazista, da città liberale, aperta e cosmopolita divenisse luogo da cui Freud, Schönberg, lo stesso Werfel e tanti altri intellettuali di origine ebraica dovettero ben presto fuggire emigrando all’estero, onde evitare le persecuzioni naziste.



I due piani temporali nel romanzo sono destinati a intersecarsi per via di una lettera inattesa, stilata giusto mediante “una scrittura femminile azzurro pallido”, che il protagonista – Leonida: invidiato “capodivisione” ministeriale, d’umile origine ma assurto a un rango sociale elevato grazie a un matrimonio di convenienza con la ricca aristocratica Amelie – riceve un giorno dall’ex amante che egli non ha più rivisto da vent’anni e soprattutto a suo tempo ha ingannato, non rivelandole d’avere una moglie. Nella lettera la donna, di nome Vera, prega Leonida di aiutare “un giovane di talento” a lei caro, che le leggi razziali tedesche hanno costretto a rifugiarsi in Austria.



L’uomo, irritato per tale sgradevole ingerenza, riflettendoci cade poi in preda al panico, fattosi convinto non solo di essere lui il padre di quel ragazzo ma che soprattutto “il suo nuovo figlio aveva un tasso elevato di sangue ebraico nelle vene”. Per non dire d’un ulteriore aspetto poco conveniente, essendo a suo avviso “quanto mai inopportuno che un alto funzionario dello Stato stabilisse contatti sociali con gente della razza di Vera”. 

Sull’orlo della paranoia, nel timore di mettere a repentaglio la propria immagine di marito fedele e di burocrate integerrimo a causa di tale scandalo, il protagonista, che già si prefigura di venir sottoposto a un’inchiesta avvilente, in realtà è lui stesso a volersi sottoporre per la prima volta a un sincero esame di coscienza. Ne emergerà una constatazione tanto impietosa quanto avvilente: egli ha trascorso un’esistenza intessuta di menzogne, reticenze, compromessi e perbenismo di facciata. Con un unico periodo felice: quello trascorso a suo tempo accanto a Vera, la sola donna da lui amata sul serio, ma che poi abbandonò per evitare una possibile richiesta di divorzio da parte della moglie. Eppure anche questa volta nulla d’eclatante verrà a sconvolgere il ménage del nostro ignavo conformista che, dopo aver scoperto in un colloquio con Vera di non essere il padre del giovane ebreo, tornerà tra le braccia di Amelie e al proprio tran tran rassicurante.

Romanzo sull’inautenticità e sull’infedeltà innanzitutto nei confronti di se stessi − tra fraintendimenti e tradimenti, fra futili ambizioni e vane agnizioni − Una scrittura femminile azzurro pallido è al contempo un disincantato j’accuse contro l’ipocrisia, gli speudovalori e il moralismo piccolo-borghese incarnati da buona parte della classe media tedesca durante il travagliato periodo d’involuzione politica, culturale ed anche etica che contrassegnò i cruciali anni Trenta. Avvalendosi di un mirabile, davvero ben oliato meccanismo narrativo che letteralmente avvince il lettore dalla prima all’ultima pagina e di una scrittura nitida, precisa, direi anzi implacabile, Franz Werfel riesce a far emergere in modo esemplare la squallida banalità del protagonista: specchio fedele della miseria morale e umana di tutto un ceto sociale disponibile a ogni tipo di connivenza, meschinità e disimpegno pur di mantenere intatta la propria condizione privilegiata.