Sono da poco rientrato da una settimana in montagna. Val Pusteria: se cammini su quelle creste, un passo a sinistra e sei in Italia, un passo a destra e sei in Austria. Oggi, superato San Candido, la dogana vecchia si mostra in una tristezza sfiorita, mentre i camion e le automobili sfrecciano felici di non doversi più fermare. La traccia più evidente dell’ingresso in Austria è la diminuzione dei prezzi ai distributori di benzina.
Durante una delle camminate ho percorso un tratto dell’Altavia carnica, che passa lungo la prima linea austroungarica della prima fase della Grande Guerra. Lì, nelle Dolomiti, si è combattuto “solo” dal 1915 al 1917. Dopo Caporetto, la rottura del fronte italiano e la nuova linea Altopiano di Asiago-Monte Grappa-Piave portò la guerra lontano da quei luoghi.
I morti, però, sono rimasti lì. E mi ha impressionato la grande presenza di piccoli cimiteri disseminati lungo le valli, nei paesi, vicino alle creste dove si combatteva. Rettangoli d’erba verde, cintati da una palizzata di legno o di ferro; file di semplici croci, un nome, una data. Fermandosi a osservare con un po’ più di calma, si possono scoprire, nei cimiteri delle retrovie, nomi di prigionieri italiani: ho incontrato un Giacomo Bulgarelli che riposa nel cimitero di Kartisch, vicino a soldati austriaci, ungheresi, croati… E guardando ancora meglio, tra i nomi dei soldati austroungarici si possono scoprire qui e lì dei Cohen, dei Levy, e poi degli Ahmed e dei Mehmed. La gioventù di mezza Europa è andata a morire lassù, in quello che negli scacchieri strategici era considerato un “fronte secondario”.
Vivo ai piedi del Monte Grappa, e bazzico, oltre a quel massiccio, anche l’altopiano di Asiago. È per questo che vedere quella realtà cimiteriale “diffusa” mi ha stupito: qui da noi, eccettuati alcuni cimiteri di soldati stranieri nell’altopiano di Asiago, le salme dei soldati sono state riesumate, nel corso degli anni Venti e dei primi anni Trenta, per essere ricollocate nei grandi sacrari che più o meno tutti conoscono: l’ossario di Asiago, il sacrario di Cima Grappa, quello del Pasubio, quello di Crocetta del Montello… giù giù fino al grande sacrario di Redipuglia, che, da solo, ospita più o meno 100mila soldati, un sesto di tutti i morti italiani nella Grande Guerra.
Tale palpabile differenza nelle sorti toccate alle salme dei caduti mi ha fatto riflettere sul senso del sacrario “collettivo”, così diffuso in Italia.
In primo luogo: a parte sporadici esempi (la chiesa ossario di Bassano del Grappa, o quella di Padova, detta “della Pace”), l’elemento religioso nei sacrari di guerra è spinto ai margini, o del tutto assente: il soggetto dominante, la grande Madre, che si è riappropriata dei propri figli morti, è la Patria, e, mi verrebbe da dire, lo Stato (che, all’epoca dell’edificazione di tali monumenti si identificava il più delle volte con lo stato fascista).
Certi ossari richiamano elementi classici, come il grande arco di trionfo (!) di Asiago; altri recuperano motivi assiro-persiani (certi elementi architettonici di Cima Grappa). La patria laica impone l’unica religione del Valore, della Memoria collettiva, nella quale sembra quasi che il morto acquisti valore solo perché parte di una schiera infinita, come se la tragedia della guerra avesse senso solo nella smisuratezza della morte (spesso frutto, come ricordato nelle pagine più belle di Remarque, Lussu, Hemingway, proprio dell’incompetenza e dell’ottusità di quelle gerarchie militari che, a guerra finita, si arrogarono il dubbio diritto di militarizzare la morte).
In secondo luogo: la croce, il richiamo alla pace eterna, il richiamo al pianto e alla pietà dei vivi cedono il passo a concetti e a codici linguistici che si uniformano attorno a messaggi di gloria (Gloria a voi, soldati del Grappa, è il motto onnipresente nell’ossario della Cima) e di permanenza del defunto nel suo status di soldato in armi, non di figlio, non di padre o marito (Presente, scandiscono i gradoni di Redipuglia). Lo stesso si può anche vedere nei monumenti ai caduti, di cui purtroppo ogni città, ogni paese e ogni frazione d’Italia è decorato: i monumenti precedenti all’ascesa del fascismo insistono spesso sull’estetica del dolore (le Pietà sono molto presenti, come anche le immagini liberty di angeli o donne piangenti sulla salma del soldato); quelli, invece, edificati dopo la presa di potere del fascismo, mostrano giovani soldati arditi e muscolosi che stendono l’ampio petto e puntano la baionetta in direzione di un nemico immaginario (o non tanto immaginario?); armi, immagini di vittoria e di potenza.
In terzo luogo: mentre i piccoli cimiteri, le sepolture iniziali in cui erano stati raccolti i morti della Grande Guerra, si caratterizzavano per una grande differenziazione spaziale ed estetica, dovuta anche solo al fatto che spesso ad un soldato corrispondeva una tomba, una croce, una lapide, nei sacrari domina il concetto di omologazione, di uniformazione, quasi di massificazione dei “soldati semplici”, incasellati in loculi o in fosse comuni, laddove invece posti d’onore sono riservati ai soldati che si sono guadagnati medaglie al valore, o a ufficiali e generali che hanno contribuito alla cosiddetta “vittoria”. Per capire bene di cosa sto parlando, basti osservare le foto d’epoca che ritraggono il grande cimitero di Colle S. Elia, proprio di fronte a Redipuglia, da cui sono stati tolti i morti perché fossero portati negli anonimi gradoni del nuovo sacrario: migliaia di croci e migliaia di messaggi, un caotico, ma sicuramente più espressivo, viaggio attraverso il dolore privato di chi, rimasto in vita, aveva voluto donare una tomba al parente o all’amico caduto.
Infine, in quarto luogo: i sacrari sono degli spazi bene individuati. In essi si entra, ad essi si sale, spesso hanno orari. In altri termini: sono isolati rispetto agli spazi circostanti, magari si vedono, ma spiccano come Moloch all’orizzonte, non sono integrati con il territorio.
Forse perché era meglio relegare la morte ad ambienti lontani e neutri? Forse perché il mito della Vittoria andava alimentato con segni forti, alti ed altri rispetto allo spazio quotidiano della vita comune? Fatto sta che, nelle zone del fronte, spesso la morte, fino al giorno prima dimensione prossima, sperimentabile, visibile, in qualche modo scomparve, venne asportata e in un certo senso sterilizzata sotto al cemento e ai marmi asettici dei grandi monumenti.
Già. La morte, in sintesi, venne monumentalizzata. I monumenti sono una cosa rischiosa: li vedi tutti i giorni, fin da quando sei un bambino, quando accetti il mondo perché “è così”, e quindi deve andar bene per forza; fanno parte della tua città, del tuo ambiente, ma, a differenza delle case e dei viali alberati, i monumenti, lo dice la parola, ammoniscono, lanciano dei messaggi ben precisi. E non è detto che questi messaggi siano giusti, o condivisibili da tutti, o in tutte le epoche.
Ci avviciniamo al centenario dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale. Sarà un periodo in cui, per fortuna, molte famiglie e molti studenti si recheranno in questi luoghi del ricordo. Se è vero che la sfida più importante per un educatore è stimolare l’autonomia del pensiero, proviamo a guardare e a far guardare quei monumenti con gli occhi di chi li vide sorgere dal nulla.
Proviamo a pensare a chi vide, giusto per partire dalle cose forse meno importanti, spendere milioni di lire, in un Veneto, un Trentino e un Friuli fatti a pezzi dal conflitto, per edificare sacrari che avrebbero dovuto ospitare corpi che erano già sepolti in cimiteri da campo. Certamente più provvisori, certamente di intralcio al pascolo o all’agricoltura, certamente spesso più fosse comuni che cimiteri… Ma altre soluzioni forse si sarebbero potute trovare?
Proviamo a pensare ai morti che hanno perso la propria identità a causa dei sacrari: sepolti, in un primo momento, con un nome su una croce di legno, una volta riesumati e trasportati a chilometri di distanza, essendosi ormai deteriorate la carta o la piastrina di riconoscimento, sono divenuti alcuni degli infiniti militi ignoti che affollano gli ossari.
Proviamo, soprattutto, a pensare ai parenti di quei caduti, che videro (chissà se ne furono testimoni consapevoli, credo che alcuni lo siano stati) i corpi dei propri figli o mariti diventare strumento propagandistico nelle mani di uno stato che faceva della guerra, della forza, del mito della vittoria alcuni dei punti cardine del suo consenso.
Proviamo a pensare al fatto che, mentre nei piccoli cimiteri di montagna si trovano solo croci e qualche lapide, immancabilmente nei grandi sacrari fanno mostra grottesca di sé le stesse armi (i cannoni, i mortai, i proiettili giganteschi di fianco ai quali molti turisti trovano normale farsi una foto!) che furono le sterminatrici di chi giace lì a pochi passi, incapace di difendersi e di dire la propria. Come se, di fianco a un morto per tumore ai polmoni, si piazzasse una bella pubblicità di sigarette dei Monopoli di Stato.
C’è chi dice che la Storia non si fa con i se, ma non ci credo, e mi piace provare a pensare, correndo il rischio di sbagliare, che se i morti, tutti i morti della Grande guerra, fossero rimasti nei tanti cimiteri da campo, se fossero rimasti a ridosso delle cime, lungo le valli, vicino alle chiese di paese, forse il concetto stesso di Grande Guerra oggi sarebbe diverso. Se non fossero stati costruiti quei Moby Dick della “memoria parziale”, i bambini cresciuti nelle zone di guerra avrebbero portato, nel giorno dei morti, i fiori alla tomba del nonno, trovando, lì a pochi passi, le tombe dei soldati “dell’altra guerra”. In particolar modo, almeno questo è quanto ho visto nei piccoli cimiteri austriaci della Pusteria, sarebbe sopravvissuta una dimensione intima e religiosa della morte, più vicina e quindi forse più facile da comprendere, da sentire propria.
Certo sono passati ormai cento anni, e forse a nessuno importa più di queste cose. O forse sì, perché, in fin dei conti, stiamo parlando di pedagogia, come dimostrano queste righe tratte da Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque:
“Dovemmo riconoscere che la nostra età era più onesta della loro [gli insegnanti]. […] Mentre essi continuavano a scrivere e a parlare, noi vedevamo gli ospedali e i moribondi; mentre essi esaltavano la grandezza del servire lo Stato, noi sapevamo già che il terrore della morte è più forte. Non per ciò diventammo ribelli, disertori, vigliacchi – espressioni tutte ch’essi maneggiavano con tanta facilità – noi amavamo la patria quanto loro, e ad ogni attacco avanzavamo con coraggio; ma ormai sapevamo distinguere, avevamo ad un tratto imparato a guardare le cose in faccia. E vedevamo che del loro mondo non sopravviveva più nulla. Improvvisamente, spaventevolmente, ci sentimmo soli“.