A meno di dieci anni dalla conclusione del Concilio Vaticano II, il momento in cui la Chiesa universale, ma in particolare quella italiana sembrò essersi messa per così dire “al passo con i tempi”, anche su temi delicati di pastorale sociale (si pensi all’attuazione della riforma liturgica, ad esempio), il fallimento del referendum abrogativo della legge sul divorzio sembrerebbe agli occhi degli osservatori di oggi aver riportato bruscamente sul piano della realtà il mondo cattolico italiano, alle prese allora con il fenomeno della secolarizzazione, e soprattutto immerso in quel clima di contestazione dell’autorità costituita che si era da poco palesato in tutta la sua forza dirompente durante la stagione del Sessantotto.
È vero che l’assise conciliare, conclusa dallo stesso pontefice allora regnante, quel Paolo VI che di recente aveva rifiutato gli esiti favorevoli della commissione da lui stesso istituita sull’uso della pillola contraccettiva ed aveva prodotto l’Humanae Vitae, nella fretta – ripetutamente notata dal presidente della Cei, card. Giuseppe Siri – di concludere i lavori aveva passato di gran carriera temi determinanti come quello della famiglia, perdendo così un’occasione importante di reale aggiornamento e confronto con i segni dei tempi di un cambiamento sociale radicale.
Ed è vero che la società stava cambiando con grande velocità e soprattutto il ruolo della donna si stava radicalmente trasformando a causa dell’industrializzazione avanzata del paese, reclamando pari opportunità di lavoro e di vita, e persino uno sganciamento dalla funzione ancillare nella famiglia tradizionale che la indirizzava a rivendicare la possibilità di recedere da unioni sgradite, benché suggellate nel sacramento da Santa Romana Chiesa.
Ciò però forse non basta a spiegare il 59,1 per cento di voti espressamente contrari all’abrogazione della legge sul divorzio da poco approvata, non basta soprattutto a definire tale percentuale un perimetro partitico peraltro quantomai occasionale e frastagliato dentro il quale si definì la difesa politica dei nuovi diritti appena disegnati: la piccola formazione dei radicali, i comunisti, i cosiddetti cattolici del no (adulti, progressisti, ecc..). Soprattutto questi ultimi avrebbero avuto ben presto la piena consapevolezza di non potersi attribuire – nemmeno forzando ideologicamente la mano – il merito di tale “vittoria”, neanche all’interno dello stesso mondo cattolico.
Perché è solo proprio partendo dall’analisi dei comportamenti della “massa silenziosa”, che pure ancora si autodefiniva cattolica secondo proporzioni quasi assolute, e manteneva comunque un forte legame con la pratica religiosa, che si può comprendere un cambiamento di mentalità, una nuova visione di costume che ormai andava allontanandosi dalla normatività dei patti sanciti da (o con) l’autorità, e tendeva piuttosto a far emergere i diritti individuali, il benessere del soggetto persino rispetto alle sue stesse scelte, la relatività degli indirizzi di vita; una trasformazione che stava producendo una società molto più dinamica, plastica – oggi si direbbe con Baumann “liquida”, mentre cresceva l’età media delle persone e calava il numero di figli per famiglia.



Persino figure vicino al progressismo cattolico allora cercarono di evitare che venisse sancita la definitiva e pubblica separazione tra morale cattolica e morale civile, proponendo di disertare il referendum, di riportare la discussione sulla legge in aula, dove magari figure da loro culturalmente distanti eppure parte della stessa formazione politica come Andreotti avrebbero poi magari cercato di correggere il tiro, cercando di delineare una linea indipendente tra l’indissolubilità religiosa del vincolo nuziale e la dissolubilità di quello civile.
Ancora più confuso si presentò il panorama ecclesiale all’appuntamento referendario, con la Cei non più di Siri, ma del segretario Bartoletti indirizzata a voler lasciare “libertà di coscienza”; soprattutto l’Azione Cattolica e la Fuci rimasero senza una direzione unitaria, mentre Comunione e liberazione abbracciò molto più nettamente la linea abrogazionista. Fu comunque indubbiamente il referendum di Fanfani (e, abbastanza inconsuetamente, di La Pira), il suo estremo gesto di riaffermare una leadership politico-culturale personale e del partito in ambiti della vita sociale dove essa risultava ormai inevitabilmente compromessa dall’evoluzione della società moderna.
La legge sul divorzio è di nuovo assurta agli onori della cronaca di recente, con l’introduzione del cosiddetto “divorzio breve”, e ancora una volta – questa nelle aule parlamentari – si è notata l’evidente posizione favorevole di una maggioranza eterogenea e individualmente indirizzata, così come nel 1974 (solo, e non casualmente, i Popolari per l’Italia – formazione con una forte identità politica cristiana – hanno assunto come gruppo posizione contraria).
Nell’occasione sono riemerse le medesime riflessioni di allora sul grado di incidenza attuale della morale cristiana e delle indicazioni della Chiesa cattolica sull’Italia di oggi. Verrebbe da dire che però il panorama culturale italiano è profondamente cambiato, che almeno apparentemente i cattolici non sono più una maggioranza. Eppure si ha la sensazione oggi che un certo imprinting culturale cristiano, un modo profondamente cattolico di essere del nostro paese, persino al di là delle sue stesse consapevolezze, stia gradualmente riemergendo, riportando questioni come quella del divorzio su di un diverso piano di riflessione. Innanzitutto – sebbene i parlamentari, anche forse sulla scorta dei vissuti personali, abbiano votato ampiamente a favore  –  si cominciano ad osservare gli esiti di quarant’anni della legge con maggiori accenti critici, si studiano con particolare attenzione i comportamenti delle cosiddette “famiglie allargate”, il sistema oggettivamente antieconomico per tutta la società delle separazioni, il dramma dei padri separati, soprattutto il disagio indiscutibile dei figli e i condizionamenti psicologici da essi subiti.
Se ciò non significa ancora riportare il tema della coppia sposata sui binari di una visione religiosa e indissolubile, pare stia avanzando un’idea diversa, più complessa e integrata dei modi di risoluzione dei conflitti famigliari, che non porti necessariamente alla divisione della coppia. Dove ciò porterà e ancora difficile dirlo, ma certo si comincia ad avvertire da più parti l’impressione che il modello cattolico di famiglia faccia parte di un complesso identitario profondo del popolo italiano, che forse nemmeno la bufera del Sessantotto è stato in grado di scalfire in modo definitivo.

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