Ho sempre nutrito una certa simpatia per Karl Raimund Popper (1902-1994), l’epistemologo austro-inglese in auge negli anni 60-70 ed oggi (quasi) sconosciuto ai più. Nell’Austria degli anni Venti del secolo scorso, nel periodo immediatamente successivo alla Grande Guerra, insieme ad un sentimento di umiliazione risentita per una sconfitta subita non tanto in campo aperto, ma decisa dai Grandi vincitori, si andò affermando un atteggiamento culturale che si condensava in un mai sopito fervore filosofico, che aveva il suo epicentro nella città di Vienna e da lì si irradiava in tutto il mondo europeo di lingua tedesca.



Tra i vari fenomeni di natura culturale, certamente quello del Neopositivismo logico, raccolto soprattutto attorno al Circolo di Vienna, ebbe un’eco e un influsso enormi su vari orientamenti che si potrebbero, molto semplificando, condensare nel tentativo di una interpretazione esatta del mondo

Il Manifesto (anonimo) del Circolo di Vienna contiene la prefazione di H. Hahn e O. Neurath e ha un titolo che esprime un’ ambizione culturale: la Costruzione scientifica del mondo. Per far ciò, il mondo è ridotto a semplici fatti, “protocolli di esperienza”, fatti “molecolari” tenuti insieme in una rigida visione che è una sorta di griglia stretta nelle maglie della logica formale come linguaggio, con i suoi simboli, con la sua sintassi.



Vi era un presupposto, sempre più esplicitamente dichiarato, che vantava uno statuto di scientificità  per le nuove mode del secolo: l’austro-marxismo di Hilferding, la psicoanalisi di Freud, la psicologia individuale di Adler ambiscono ad un rigore che ha come modello quello delle scienze empiriche.

Tale statuto scientifico veniva acquisito assoggettandosi  al metodo induttivo che andava per la maggiore e che si era imposto tra i neopositivisti come Schlick, Carnap  ed altri. Essi ritenevano  assolutamente indiscutibile il criterio della verificazione per una scienza che volesse dirsi tale. Tale criterio assume la funzione di discriminante tra ciò che era da ritenersi scientifico e ciò che invece non poteva esserlo. Il  metodo della verificazione permetteva di attribuire valore scientifico a tutte quelle espressioni (proposizioni) che risultavano corroborate dall’esperienza dopo esser passate al vaglio di essa. Tutto ciò che non superava tale “prova” veniva rigettato non solo come “non scientifico”, ma addirittura come privo di senso, insignificante.



Dio, anima, mondo, coscienza furono messe al bando da ogni discorso che volesse dirsi rigoroso e comunque condannate all’insignificanza. “Di tutto ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”  sentenziò L. Wittgenstein alla conclusione del suo suo Tractatus logicus filosoficus.

Karl Popper avvertì con insofferenza gli influssi che il Circolo di Vienna propagava, soprattutto che avessero sempre conferme alle loro tesi sulla filosofia della storia così come accadeva ai freudiani della prima ora. Questi ovunque riconoscevano il trionfo delle loro posizioni “scientifiche”: conferme, solo conferme, che un certo modo di osservare la realtà e il metodo della verificazione consentivano di avere (basti pensare a certi…teoremi giudiziari).

Allora alcuni dubbi sulla validità del metodo induttivo (dall’osservazione alla formulazione di teorie “esatte” perché confermate dall’osservazione) vennero a galla e il giovane Popper, che aveva collaborato con Adler nell’applicare le sue teorie sui bambini dei sobborghi viennesi, da buon razionalista qual era e con la sua aria ingenuamente scanzonata, un giorno del 1919 si rivolse direttamente ad Adler in questi termini: “Una volta – racconta Popper − gli riferii di un caso che non mi sembrava particolarmente adleriano, ma che egli non trovò difficoltà ad analizzare nei termini della sua teoria dei sentimenti di inferiorità, pur non avendo nemmeno visto il bambino. Un po’ sconcertato gli chiesi come poteva essere così sicuro. Adler rispose ‘a causa della mia esperienza di mille casi simili’. E con questo ultimo – suppongo − la sua esperienza vanta milleuno casi!”.

Dunque il credo dei neoempiristi (o neopositivisti logici) si condensa nell’enunciato che “il senso di una proposizione consiste nel metodo della sua verificazione”: ciò che non è verificabile sulla base di una esperienza protocollare è privo di senso: può rimanere un convincimento etico, religioso, esistenziale… ma non può pretendere alcuna dignità razionale. Trattasi, insomma, di un opinabile punto di vista la cui cittadinanza è ammessa nell’ambito in cui tutto è relativo.

Ottant’anni fa, 1934, vede la luce Logik der Forschung (Logica della ricerca) poi Logica della scoperta scientifica nell’edizione inglese del 1959. E qui Popper, coraggiosamente, va oltre le colonne d’Ercole del Circolo di Vienna e dei suoi dogmi scientisti che nessuno più osava oltrepassare.

Sostenuto da una logica stringente, Popper intende rispondere a due domande: Da dove nasce la scienza? E, quindi, qual è la linea di demarcazione tra scienza e non scienza?

Alla prima domanda non si può rispondere asserendo che le teorie scientifiche nascono dalla osservazione: la risposta è troppo ingenua, così come è ingenuo il metodo osservativo, posto a base della induzione. 

Se io sto osservando, cosa sto osservando? Cosa guida, cosa sostiene, quale ipotesi sorregge la mia osservazione? All’origine di ogni osservazione vi è sempre un quid di natura pre-scientifica che qualifica, influisce sul (afficio) mio interesse a guardare in un modo anziché in un altro la realtà che ho dinnanzi.

La seconda risposta scardina letteralmente la validità del criterio di verificazione come unico metodo scientifico.

Innanzitutto Popper non è affetto da furore iconoclasta verso tutto ciò che richiama immagini legate alla metafisica, come invece era accaduto per i neopositivisti logici. E ciò è salutare per le stesse teorie scientifiche perché almeno non sono inficiate, metodologicamente, da pregiudizi di natura ideologica.

Ciò che risulta davvero rivoluzionario, nella concezione epistemologica popperiana, è l’adozione di un criterio diametralmente opposto a quello della verificazione empirica. E tale criterio prende il nome di falsificabilità delle teorie scientifiche. Una teoria risulta scientifica non tanto per il numero più o meno considerevole delle conferme accumulate sul piano dell’esperienza empirica, quanto per il carattere di “sfida” che le teorie devono possedere provocando la realtà a “falsificare”, a smentire il valore conoscitivo delle teorie messe alla prova.

La falsificabilità in linea di principio non è una sorta di masochistica ricerca delle smentite al posto delle conferme, ma una sfida lanciata al reale per provocarne una reazione, per “costringere” la realtà a frugarsi dentro, in ogni dove, nel tentativo di smentire le azzardate teorie con cui si intende arricchire il contenuto conoscitivo della realtà stessa. Se io affermo che “tutti i corvi sono neri” non aggiungo alcunché di interessante alla mia conoscenza della realtà; ma se dico che “vi sono alcuni corvi che non sono neri”, prima di smentire tale ipotesi, sono costretto ad attivare tutta la possibile dinamica osservativa alla ricerca di quanto dichiarato per vedere se, da qualche parte del mondo, siano davvero stati avvistati corvi non neri. “Le teorie sono reti: solo chi le getta pesca” dirà Popper citando Novalis.

Ma se le teorie sono “reti”, allora esse devono rinunciare alla pretesa veritativa che un certo modo di fare scienza ha preteso avere, conferendo alla verifica sperimentale, al processo di verificazione (che nessuno contesta) il crisma della validazione tout court di una teoria empirica che concepisce la verità come immanente all’atto stesso del verificare.

E quanto più arditamente si getteranno le reti, tanto più la realtà sarà provocata nella sua natura di ignoto che tende, accidentalmente o meno, a svelarsi.

Quanto più una teoria è azzardata, tanto più promette sul piano conoscitivo. La genialità scientifica sta tutta nell’osare domandare ciò che nessuno prima d’ora aveva chiesto, magari trascurando ipotesi preliminarmente scartate dal nostro incorreggibile scetticismo.

Viene da pensare che l’atto davvero rivoluzionario di Galileo, che forse per questo perfezionò e  rafforzò il cannocchiale inventato l’anno prima da Hans Lippershey (1608), fu quello di usarlo come nessun altro prima di allora aveva fatto: puntandolo verso il cielo! Questo gesto “teorico” cambiò il mondo.

Torniamo a Popper, riconoscendo a questo grande epistemologo il merito di aver introdotto, nell’ambito delle scienze empiriche, il metodo della falsificabilità come migliore rispetto a quello della verificazione.

La vera posta in gioco che risulta dal confronto tra queste due metodologie (induttivismo e metodo ipotetico deduttivo) ruota attorno ad una concezione (apparentemente) extrascientifica che si può condensare nella parola esperienza. È convincimento di Popper che la teoria della conoscenza che ha il compito di analizzare le procedure peculiari alla scienza empirica “è ciò che si è soliti chiamare esperienza” (Logica scoperta scientifica, p. 21).

I positivisti si preoccupano di accertare la validità delle proposizioni elementari, protocollari, per poi sentirsi autorizzati, attraverso il metodo dell’inferenza induttiva, a validare la verità di certe teorie scientifiche. Per l’empirismo la certezza può essere trovata solo nell’accumularsi delle ripetute osservazioni, da cui consegue che la universalità (che è il carattere peculiare di ogni teoria) può trovarsi soltanto nella totalità delle osservazioni accertate dei fatti. Ma al di là della difficoltà pratica a fare ciò, l’empirista non può sentirsi appagato dalla limitazione dei casi osservati e quindi adducibili come prova, dato che per la prognosi di eventi futuri dovrebbe allargare l’ambito delle  evidenze possibili.

L’aporia dell’empirista, che Popper non sottolinea abbastanza, è che la totalità (universalità) non è l’insieme dei fatti accertati, anche se la totalità è impensabile senza il riferimento a quell’insieme.

Si realizza, alla fine, in casa dei neopositivisti e dei loro epigoni, che la tanto decantata esperienza subisca una formidabile riduzione a quelle proposizioni protocollari il cui accertamento è fortemente dipendente dalla fallacia delle nostre percezioni.

Il metodo popperiano della falsificazione implica una maggiore curiosità conoscitiva, permette teorie più “azzardate” e meno conservatrici, si espone in modo più liberale ad un rapporto investigativo della realtà che non elimina la funzione dell’esperienza, ma la rende più pertinente come utilissimo correttivo delle ipotesi avanzate e come spazio illimitato del possibile. 

Non è certo poco dal punto di vista scientifico.

 E non si rattrappisce l’esperienza impedendole di essere davvero un formidabile criterio conoscitivo.