Il Mediterraneo è qualcosa di unico: una perla veramente preziosa. Ma non possiamo accostarlo solo con lo sguardo estasiato di chi gusta le bellezze naturali del suo mare e le sue splendide terre di contorno. I tesori delle civiltà cresciute attraverso gli scambi incessanti che le vie d’acqua hanno alimentato lungo i secoli non sono un patrimonio semplicemente da custodire, dimenticando il ribollire della vita che continua oggi intorno ai luoghi che hanno generato il mondo di cui noi europei moderni siamo eredi. Il grande mare interno che era stato il teatro della fioritura di Atene e di Roma, dove si sono impiantati i monoteismi delle tre fedi che hanno segnato il destino umano del coacervo eurasiatico, lungo asse centrale dell’economia-mondo gravitante intorno ai punti di contatto dei continenti dell’ecumene antica e medievale è, oggi, anche una delicatissima area di crisi. Il fascino dei paesaggi e i resti monumentali delle prestigiose culture del passato convivono senza tregua con i fenomeni di instabilità e i conflitti neanche solo latenti, le cui esplosioni più violente punteggiano in modo inesorabile la cronaca dell’attualità che arriva a inquietare il nostro fragile presente.



Gli studi di storia dell’ultimo secolo hanno insegnato ad abbracciare nel loro insieme le dinamiche intricate degli incontri (e degli scontri) di popoli e di civiltà che hanno plasmato il mosaico geopolitico dell’intera area mediterranea. Il vertice di questo allargamento di orizzonti è senza dubbio da riconoscere nel geniale lavoro della prima maturità di Fernand Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l’époque de Philippe II, apparso subito all’indomani del secondo conflitto mondiale, a Parigi, nel 1949, più tardi rivisto e ampliato in una nuova edizione (1966), tradotta in lingua italiana da Einaudi come già era avvenuto per la versione originaria.



Una delle tesi di fondo di Braudel è che il Mediterraneo non va visto come una barriera di separazione, che ha soltanto diviso e messo in contrasto le comunità umane proliferate sulle isole e ai bordi del mare o nei retroterra continentali che su di essi si affacciano trovandovi sbocco. Per lui, in quel Cinquecento che ha segnato l’avvio del mondo moderno così come negli altri momenti più felici della vicenda plurisecolare che lo include, il mare è stato anche un “continente liquido”, cioè un’accogliente piattaforma acquatica che ha reso possibile, più che altrove, gli spostamenti, i flussi migratori, lo scambio reciproco, gli innesti, l’incontro e la coesistenza tra i diversi. Non sempre, questo è ovvio, tutto si è risolto nella sintesi armoniosa. Equivoci ed incomprensioni, sfruttamento altrui e imposizione di rapporti di dominio che creavano squilibri e dislivelli sono sempre stati il controcanto dialettico della spinta alla confluenza che scaturiva da una vita economica e sociale proiettata più sullo specchio marino dei percorsi di navigazione che rivolta all’indietro, a presidiare le fortezze del potere terrestre sugli uomini e sulle ricchezze della natura.



Oggi questo fitto tessuto osmotico, che ha cucito l’esistenza dei popoli circummediterranei in una altalena incessante di rapporti, oscillante senza posa da oriente a occidente, da sud verso nord, e viceversa, è sminuito dal giudizio alternativo di chi tende a enfatizzare l’aspetto più spigoloso degli “scontri di civiltà”, alla Huntington, paurosamente rilanciati come spettro negativo dallo sgretolamento dei sistemi di controllo dell’area arabo-mediorientale imposti dai vincitori della seconda guerra mondiale, insieme all’evoluzione in senso fondamentalista dei movimenti nazionalisti e di revival religioso del vasto mondo musulmano postcoloniale, ramificato soprattutto tra Africa e Asia, alla rincorsa della rivincita su una modernità occidentale di cui i paesi “in via di sviluppo” hanno sperimentato il volto più problematico e spesso cinicamente brutale.

Chi invoca l’innalzamento delle barricate e insegue nuovi sogni di crociata (o di “guerra santa” contro gli infedeli, dalla parte opposta della trincea di due mondi immaginati solo in guerra) tende a lasciare in ombra tutti quegli spazi e quei momenti di dialogo, di contaminazione e a volte anche di arricchimento reciproco che la lunga durata del pluralismo mediterraneo ha reso possibile nel corso dei secoli. Si isolano gli scontri da tutto il resto e si tace su ciò che non corrisponde alla sensibilità prevalente degli osservatori chiamati in gioco. In ogni caso, restano amputate la complessità e la straordinaria ricchezza di sfaccettature di una storia a molti strati, dove Lepanto e i martiri di Otranto, l’islamizzazione dei Balcani meridionali e dell’Oriente mediterraneo, la persecuzione antisemita e il genocidio armeno eclissano e fanno dimenticare le luci di segno opposto, come Granada e Monreale, le traduzioni di Aristotele e il trapianto della scienza arabo-persiana importati nel Medioevo cristiano, l’adozione dello zero e di un nuovo sistema di numerazione delle cifre diverso da quello latino, la lunga sopravvivenza di una diaspora giudaica tollerata nel seno dell’Occidente fino alle rotture spaventose e agli eccessi delle ultime fasi del “progresso moderno”.

La storia non è mai a senso unico. E per addentrarci nell’avvincente poliedricità, mai etichettabile con comodi schemi risolutivi, della storia del Mediterraneo ora abbiamo a disposizione l’agile guida di un volumetto di poco più di un centinaio di pagine che dobbiamo alla fertile penna di Franco Cardini (Incontri e scontri mediterranei, Salerno Editrice, 2014).

Cardini non è solo uno dei nostri più autorevoli medievisti. È anche un interprete acuto della storia globale del mondo che dal nostro Medioevo ha preso sostanza e da lì si è distesa per tutto l’arco dell’età moderna, sfociando nelle contraddizioni e nelle sfide tuttora aperte del nostro mondo attuale. Sintetizzando i dati della letteratura specializzata che si è accumulata negli ultimi decenni, Cardini traccia un profilo che mostra con grande chiarezza e abbondanza di informazioni come l’eredità del meticciato etnico-religioso e politico-economico del Mediterraneo si è modellata nel tempo e, attraverso incessanti mutazioni, è arrivata a costituire lo scenario del nostro problematico contesto odierno. 

Spazio rilevante è riservato proprio alla storia dei secoli a noi più prossimi, che sono l’antefatto più immediato delle spaccature e dei sospetti reciproci che continuano a nutrire le tensioni e le prove di forza spinte fino a sovrapporre il fragore assordante delle armi agli odi e agli egoismi delle fazioni in lotta per difendere le proprie posizioni e affermare la loro unilaterale egemonia, a danno dei più deboli.

Cardini insiste sull’idea di un aggravamento della situazione che è il portato storico dell’evoluzione più recente del teatro mediterraneo. La storia non sta procedendo ottimisticamente verso il meglio. Il Novecento ha trascinato con sé rimescolamenti e scelte strategiche che hanno finito con il segnare pesantemente le vie imboccate dai popoli meno fortunati e meno robustamente attrezzati, nostri vicini nel fazzoletto di universo affidato alla nostra non sempre illuminata gestione.

La frantumazione, in particolare, dei grandi imperi sovranazionali che avevano imbrigliato la porzione orientale del mondo mediterraneo, con la scomparsa dell’ormai arcaico assemblaggio ottomano, spazzato via dalle tendenze centrifughe dei nazionalismi moderni e dall’invadenza crescente delle grandi potenze occidentali, desiderose di espandere il loro mercato e la loro area di dominio ideologico più ancora che la loro cultura dei diritti e delle libertà dell’individuo, hanno finito con il destabilizzare ulteriormente l’intera area, riducendola a traballante pilastro di un equilibrio perennemente sotto scacco. 

Le recenti “primavere” arabe, la crisi siriana, il riesplodere del conflitto tra Israele e palestinesi, i progetti di un nuovo califfato integralista tra Iraq e Siria sono scintille infuocate di un incendio che deve moltissimo ai condizionamenti della storia non meno che a spregiudicate ingerenze straniere. La dolorosa linea di divisione creata da un crescente “squilibrio obiettivo tra l’opulento Nord del pianeta e il suo Sud sfruttato, impoverito e sovrappopolato” non si è affatto attenuata. E trova anzi uno dei suoi più scandalosi epicentri proprio nel cuore dell’antico focolaio delle civiltà urbanizzate che hanno fatto da levatrice all’Occidente euro-americano, quasi in coincidenza con quello che negli ultimi centocinquant’anni era diventato il cordone di sostegno del dominio britannico sui mari, puntellato dalla rotta interna Gibilterra-canale di Suez. 

Le parole conclusive di Cardini meritano, a questo riguardo, di essere citate per esteso: “Che Lampedusa sia il centro quasi geometrico del Mare nostrum acquista ai nostri occhi e dinanzi al mondo post-moderno che si apre dinanzi a noi un drammatico senso simbolico che non può, non deve essere in alcun modo sottovalutato”.