L’anima inquieta di Tina Modotti, il suo attraversare come uno stiletto la carne viva del secolo breve, la sua bellezza malinconica e il romanzo dei suoi tanti amori; eppure la fotografia, l’immagine pulsante della vita che cercò di afferrare sotto i cieli del Messico post-rivoluzionario e che resta come traccia tangibile della sua passione più viscerale, spesso sembra passare in secondo piano. Comprensibile, alla luce di una biografia a dir poco tumultuosa, costellata di vicende tragiche e intrecciata con la vita di artisti, letterati, politici e agenti segreti lungo le rotte che uniscono diversi continenti e che riempiono le pagine dei libri di storia. Allo stesso tempo, però, ridurre Tina Modotti alla retorica dei suoi tanti biografi non rende giustizia alla vitalità di uno sguardo che si incarna nella fotografia e che attraverso questa torna a germinare con tutte le sue ingenuità, i tormenti e le contraddizioni.



La narrazione della giovanissima migrante friulana, che giunge a San Francisco e da lì si ritrova catapultata sotto la luce dei riflettori di Hollywood e dei rotocalchi ammaliati dal fascino esotico di quegli occhi malinconici, spesso dimentica o tace certi lati più oscuri. La povertà, la fatica e la fabbrica, il giovane corpo venduto per contribuire al sostentamento della famiglia, i tormenti solitari di una bambina troppo presto divenuta donna. 



Ma prima degli anni spesi nel Soccorso rosso internazionale e nei servizi segreti militari assieme al controverso Vittorio Vidali, gli anni delle purghe staliniste e della guerra spagnola vissuti con rassegnazione, Tina Modotti visse una breve stagione di esaltante creatività. Quando, nel 1923, giunse in Messico assieme al maestro e amante Edward Weston, le si parò dinanzi un trionfo di luce e autenticità, nei pueblos assolati e nei volti indigeni scavati nella pietra dal tempo. Il grande fotografo americano le insegnò a disciplinare la tecnica e a misurare le sperimentazioni dello sguardo; ma da lei, spontanea, scaturiva un’empatia assoluta e mai patetica, capace di cogliere l’umanità profonda di un gesto come la semplice eleganza dello stelo di una calle. Tuttavia la cifra della poetica di Tina Modotti non risiede nell’immediatezza tout court; consapevole della complessità del linguaggio fotografico e forte di un’esperienza, seppur giovanile ed effimera, in ambito teatrale, non difetta certo in gusto e ritmo della composizione. 



Nemmeno le sono sconosciute le ardite composizioni moderniste, le tentazioni astratte e i dibattiti accesi fra pittorialisti e avanguardisti; conobbe di prima mano l’aspra disputa fra lo stesso Weston e Moholy Nagy in occasione di una storica mostra newyorkese e lei stessa ebbe a rinnegare la maniera di un formalismo fine a se stesso. L’ammirazione dichiarata, negli anni successivi, per il lavoro di Robert Capa e Gerda Taro, infine, sembrerebbe far pendere la bilancia verso il puro impegno politico-umanitario del reportage dinanzi agli orrori della guerra. Eppure Tina Modotti è qualcosa in più della somma di queste influenze e irriducibile alla biografia fatta di scandali, amori e intrighi politici. Tina Modotti è questa irriducibile, umana tensione fra gli opposti, questa contraddittoria sete di vita e volontà di cristallizzare l’attimo nella perfezione dell’immagine. 

Più volte ricorre, nei suoi scambi epistolari e negli scritti, la volontà di raggiungere un’eccellenza tecnica che paradossalmente trascenda le vicende particolari di quei volti e di quelle mani o delle folle radunate in piazza. Si spiegano così le astrette rarefazioni dei cristalli e dei tralicci ma anche le composizioni retoriche e scenografiche delle falci e dei martelli. Prima ancora della coscienza politica e di classe vi è nella sua opera una volontà di dominare la vitalità di un mondo impazzito e ricomporre, attraverso la tecnica fotografica e la potenza del simbolico, il mosaico di un senso che continuamente sfugge. 

Le azioni incomprensibili e violente degli uomini che la circondano, gli abbandoni e le fughe, la storia come un Dio impazzito che sembra manovrare i popoli e farli precipitare verso l’abisso di atrocità che sarà il secondo conflitto mondiale. L’adesione, apparentemente incondizionata, alla linea stalinista negli anni ’30 giunse, anestetizzò l’arte della Modotti. Illusa e infine tradita, probabilmente nel modo più tragico, dagli ideali di un razionalismo dispotico e antiumano; quegli stessi ideali che avevano sosituito nella sua coscienza la complessità e la molteplicità che emerge dagli scatti dell’impetuoso periodo messicano e che ne avevano ormai inaridito l’ispirazione, la forza espressiva, la volontà di accedere ad una dimensione di autenticità. 

Condannata ad un’erranza senza meta nell’Europa totalitaria alle soglie del disastro, infine autoreclusa e precocemente avvizzita in una baracca di Città del Messico: del giovanile furore di Tina Modotti resistette negli ultimi anni, ben poco. Un ultimo scatto d’orgoglio, forse, nel rifiutare un rinnovo della tessera di partito e da lì una morte per sospetto avvelenamento, come eredità dei troppi segreti di cui era a parte. Una pudìca epigrafe di Neruda sulla sua tomba, infine, a celare le contraddizioni e le viltà di amici e compagni improvvisamente estranei se non complici: il sigillo apposto su di un’esistenza tragica, che riecheggia lungo i decenni come ammonimento per chiunque tenti di dominare le contraddizioni della vita attraverso le illusioni dell’arte.

(Davide Pairone)