Ho già avuto occasione di parlare, sul sussidiario, de I mercanti di stampe proibite di Paolo Malaguti. Recentemente ho avuto modo di leggere un suo lavoro riedito l’anno scorso, Sul Grappa dopo la vittoria (Santi Quaranta, Treviso 2009, quarta edizione 2013).
In questa strana estate in cui il tempo non diventa ciò che un turista del nord si aspetta dal mediterraneo mi sono armato di una lettura scientifica importante, quella dello storico inglese di Cambridge, Christopher Clark, sulla “nascita” della prima guerra mondiale, in un palcoscenico del mondo che non si lascia comprendere con schemi semplici (per esempio quello della Germania come unica causa dello scoppio della prima guerra mondiale) e in cui gli attori sono piuttosto “sonnambuli” che attori coscienti. Ebbene, mi mancava ancora uno sguardo alla storia della gente semplice: quella del Grappa per l’appunto, che mi è stata offerta proprio dal romanzo di Paolo Malaguti.
Vorrei presentare qui tre punti, che non esauriscono la ricchezza del romanzo di Malaguti, capace di tenere insieme uno sguardo per il destino universale del mondo con un occhio attento ai particolari più fini della natura umana.
1. Dapprima il confronto con la guerra, attraverso il quale solo pian piano l’io narrante si accorge del disastro umano e ambientale che essa significa. Il giovane narratore, che appartiene al mondo contadino veneto, ma che con la scelta di studiare, voluta dal sacerdote, si distacca in qualche modo da questo mondo, non viene sommerso dall’orrore. Gli accade invece qualcosa di diverso: “mi era scivolato addosso l’orrore, che invece di sommergermi, mi aveva semplicemente indurito e rigettato a galla, come un sughero” (79). La montagna del Grappa diventa un simbolo vivente per comprendere cosa sia la guerra: il monte che ospitava la vita di tutta una regione diventa un grande sepolcro con migliaia di esistenze semplici buttate via, l'”inutile strage” così definita da papa Benedetto XV. A sua volta un palcoscenico in cui si vede che “l’uomo è capace di modificare perennemente la natura, con un’efficacia sconcertante” – una natura che non è più rivelazione della logica creatrice, ma di quella solo tecnica che usa e distrugge.
2. Il rapporto con il padre, fatto più di sguardi e di cose non dette che di “discorsi”, mette in luce una dimensione importante della “spiritualità della gente semplice”, per così dire. Anche scelte importanti come quella del figlio di andare a studiare nel ginnasio di Bassano, non vengono “comprese”, ma “accompagnate” – quando il figlio se ne va con la bicicletta da casa per la prima volta il padre non è a casa, ma in città, sotto i portici, per vedere il figlio che passa, come il figlio stesso verrà a sapere anni dopo da un amico. Siamo di fronte alla figura di un amore che non ha nulla della “gnosi”, ma tutto dell'”incarnazione” – il farsi carne del verbo, che a questo livello di gente semplice non sa esprimersi, ma è presente.
3. Nelle tonalità semplici di una vita, che non si oppone eroicamente al fascismo, che fa della vittoria sul Grappa un atto quasi sacrale, forse perché anche come studente del ginnasio non si hanno parole per una “opposizione”, il fuoco è quello di Thanatos e di Eros – la giornata dei morti festeggiata nel ventisei diventa la giornata del morto, del padre appena morto per l’appunto a quarantacinque anni. Ed in effetti la morte ci è “nemica” (San Paolo) non tanto nella sua dimensione generale (guerra, malattia), ma in questo suo farsi presente nel particolare, affrontato da soli – si muore da soli dicevano Martin Heidegger ed Hans Urs von Balthasar − e per quanto la Chiesa possa essere presente nella strada degli uomini, nella guerra e nelle morti a valanga della spagnola, la febbre che nel dopo guerra aveva visitato mortalmente con insistenza le famiglie venete e italiane, che erano già state nell’epicentro di quella che solo formalmente era una “vittoria” ma che di fatto era il massacro di una generazione – di spagnola muore anche il sacerdote del romanzo, don Sante. Eros ha il carattere forte e audace di Santa Eulalia, che nel dipinto della chiesa sveglia piuttosto un appetito erotico che religioso nel giovane narrante, il quale ovviamente si fa degli scrupoli per la sua perversità sacrale, ma invero i grandi della spiritualità mistica sapevano bene come mistica ed eros spesso si confondano, dapprima perché eros ed agape, come ha spiegato Benedetto XVI nella Deus caritas est, non si trovano in una contraddizione assoluta, e poi perché solo attraverso una reale educazione al “senso religioso” ci si può abituare a distinguere − non separare – i piani. Il giovane stesso compie questo viaggio educativo accorgendosi pian piano di “quanto puro e profondo può essere l’amore, quanto è vicino, anzi corradicato alla religione” (74). L’incontro con Caterina, il primo amore, fa vedere infine con quale finezza d’animo, in un epoca in cui darsi la mano alla presenza della badante era già azione audace, si possa descrivere eros − il guardarsi negli occhi e nella loro variazione di colori, il vedere se stessi nella pupilla dell’amata, l’andare insieme in bici, per la prima volta da soli, perché il fratello di Caterina, appositamente, non è andato con loro, il non parlare di un sogno di Caterina, che riguarda “segreti”, tutto questo fa vedere di come l’eros provato è presente anche nella quotidianità, più presente che nelle migliaia di descrizioni erotiche esplicite dei romanzi e film dei nostri tempi, che sono più frutto della porneia dell’Apocalisse, che di un amore puro e profondo.
L’incontro a Bassano con il giovane autore non è stato pieno di parole, ma come mi ha scritto nella dedica al libro che avevo in mano e di cui ho parlato in questo piccolo articolo, rivelatore di una “profonda e sincera gratitudine”, che esprimo a mia volta tentando un viaggio nel suo libro ricco ed eccellente.