Nel Foglio di sabato scorso un breve articolo di Alfonso Berardinelli, traendo spunto dal numero 11/17 luglio de l’Internazionale, commenta uno studio di Graham Lawton uscito questi giorni negli Usa sul New Scientist sulla eclissi inevitabile della fede e il futuro della religione.
Apparentemente si tratta di un aggiornamento sulla crisi delle fedi religiose che negli ultimi 10 anni avrebbero perso quasi il 75 per cento che avevano, per arrancare sotto la soglia attuale del 60 per cento; in realtà è una prognosi sulla fede religiosa da qui a 30 anni sulla scia de Il futuro della religione di cui si occuparono anni fa Vattimo e Rorty. C’è di che preoccuparsi? Il fenomeno non è nuovo ed è evidente la crescente erosione delle fedi tradizionali con il conseguente abbandono delle chiese, specie nell’Europa occidentale, negli Stati Uniti, nel Canada, in Nuova Zelanda. Vi è una geografia dell’incredulità oramai stabilizzata in quei Paesi in cui una volta si diceva essere al culmine del benessere: una mano alla spiegazione la dava anche la vetero teoria marxista secondo cui la religione è un falso bisogno, l’oppio dei popoli, e allorquando i bisogni materiali saranno soddisfatti, questa sovrastruttura religiosa (si diceva così) si sarebbe disfatta come neve al sole. Forse non vale la pena perdersi in analisi più o meno sottili che oggi, davvero, non mancano. Perdita di posti di lavoro in percentuali sempre a due cifre, università sgangherate e in molti casi fatiscenti, litigiosità permanente in ogni ambito “civile”, timore crescente che domani può essere peggio di oggi, unioni civili di ogni genere, ma comunque sempre meno dei lasciti “per futili motivi” e sindromi di abbandono che aumentano, specie in area femminile, sintomi depressivi da pandemia.
Con ciò non si vuol dire che tutti questi sono i frutti dell’incredulità e che “non c’è più religione a questo mondo”. Semplicemente suona falsa la profezia di John Dewey che nel suo Credo pedagogico sognava un mondo libero da dogmi e gioiosamente sostenuto dalla solidarietà benefica degli interessi umani su scala mondiale.
Berardinelli, nel suo breve articolo, racconta con arguzia un episodio a lui capitato pochi giorni fa. Sono andate a casa sua due cugine di sua moglie che, come età, hanno da poco superato i sessanta. E il nostro critico, parlando del più e del meno, scopre che una di loro, da almeno 15 anni, è buddista e l’altra invece è una fanatica dello yoga. Il grande Chesterton diceva che quando non si crede più in Dio non è che non si creda a niente: si può credere a tutto!
Già nel 1957 Roland Barthes nei suoi Miti d’oggi postulava le ovvie credenze popolari che hanno sostituito l’antica fede e con il sarcasmo di una finezza inimitabile sgretolava la sacralizzazione di quel profano che ambisce a costellare il cielo muto del mondo popolare moderno a noi contemporaneo.
Ma tutto ciò che c’entra con le statistiche americane che vedono aumentare a livello planetario l’incredulità?
Cosa ha perso l’uomo che non partecipa più ai riti religiosi, alle feste popolari rievocative di motivi sacri, che ha abbandonato senza traumi (apparenti) i sacramenti? Non si rimpiange certo il folklore di un tempo né antiche emozioni consolatorie che a volte hanno sostituito la religiosità vera con strani placebo per le ferite dell’anima.
Dopo le grandi guerre, gli stermini di massa, la sterilità sociale di fronte al dolore, la ferocia bestiale che insanguina i nostri giorni, l’uomo non è più capace di parlare di sé. Sa molto di tutto, ma non sa di sé: è stato deprivato della sua esperienza. Se c’è una parola capace di descrivere quello che gli è accaduto, quello che gli sta accadendo, è la parola che più di altre è diventata enigmatica, problematica, in certi casi addirittura superflua. Quanto abuso della parola esperienza in tutta la letteratura e la filosofia del secolo scorso, senza per questo scomodare Heidegger, Thomas Mann, Hegel, Benjamin.
Si è passati dalla sua iper-semiotizzazione alla sua anoressia, a quella sorta di pelle e ossa che fotografa il fondo della nostra condizione umana, laddove parlare di coscienza di sé equivale ad uno stato afasico che percepisce il reale in modo sempre disturbato. Tristemente osservava Sartre: “fare, facendo farsi, e non esser altro se non ciò che si è fatto”.
L’incredulità maggiore è l’accorgersi della propria residualità, del fatto che di sé quasi nulla è rimasto: ciò che chiamavamo “io” è precipitato in caduta libera ed è rimasto solo come pronome personale. Magari si spera che la psicanalisi sappia scandagliare il profondo e restituirci qualcosa che somigli a ciò che forse non siamo mai stati.
Berardinelli saggiamente conclude il suo contributo osservando che credere inflessibilmente è santità o fanatismo, ma non credere mai in niente è impossibile e disumano.
Don Julián Carrón, rileggendo pagine a lui care di don Giussani, dice che la radice del moto che scuote il cuore è l’attrattiva irriducibile per un Altro che fa brillare gli occhi scoprendo, all’improvviso, chi si è. E questa è per ognuno l’affacciarsi commosso della meraviglia, la gioia ineffabile di un nuovo inizio, a qualunque latitudine ci troviamo, qualunque sia la nostra etnia.
Ho l’impressione che quando ciò accade, e spesso accade, non sia citato dal Times e non sia registrato dalle statistiche di New Scientist.