Una delle ultime fatiche di Luca Canali, il grande latinista e poeta recentemente mancato, è stata la Storia della distruzione di Troia di Darete Frigio (pubblicata nello scorso aprile nella collana “Le Navi” di Castelvecchi, 142 pp. 17, 50 euro, con le note di Nicoletta Canzio).

Idealmente, con questo libro, Luca Canali chiude il cerchio: dopo l’Eneide, di oltre un trentennio fa, non la prima, ma forse la più famosa delle sue fatiche traduttive, la Storia della distruzione di Troia racconta un’altra guerra di Troia, diversa da quella tramandata da Omero e dai poemi del ciclo epico. Il nome di Darete Frigio, cui è attribuita l’opera, compare nell’Iliade (V, 27), per indicare un sacerdote di Efesto, testimone dello scontro da parte troiana; secondo la tradizione, egli, sopravvissuto alla distruzione della città, avrebbe scritto la sua versione del conflitto; ma se ciò fosse vero, lo scritto di Darete rappresenterebbe il più antico testo letterario della civiltà greca, anteriore a Omero di almeno quattro secoli. Come potrebbe essere stata tramandata tale opera? In forma scritta o orale? E, soprattutto, in quale lingua? Forse in versi, come possiamo ipotizzare dal fatto che la prima testimonianza che cita Darete e la sua opera consiste in un passo della Varia Historia di Eliano (11, 2 = FGrHist 51 T 6), in cui l’autore afferma di conoscere un’Iliade Frigia composta per l’appunto da Darete. Ma lo Jacoby non crede che si tratti del medesimo autore del racconto pervenutoci in latino, sia perché secondo Eustazio (ad Od. 11, 521) il sacerdote di Efesto avrebbe trovato la morte per mano di Odisseo prima della conclusione del conflitto, che perché il passo della Varia Historia, menzionando il poeta Orebanzio di Trezene poco prima di Darete, lascia presupporre che il titolo Ilias indichi un’opera in versi, e non in prosa come la Storia della distruzione di Troia.



Un’altra testimonianza a proposito di Darete in età bizantina, oltre al già citato Eustazio, è poi quella di Fozio (Bibl. 190, 147 a): egli riporta un breve riassunto della Nuova Storia di Tolomeo Chenno (I sec. a. C.), secondo il quale proprio Darete, autore di un’Iliade anteriore a quella Omerica, avrebbe consigliato a Ettore di non uccidere Patroclo.



Da queste poche notizie, velocemente riassunte, pare facile riconoscere le stimmate di un falso letterario intenzionale, di un colto gioco nel campo delle infinite possibilità di riscrittura secondo angolazioni diverse offerte dal mito. Ma l’epistola prefatoria sembra arricchire – e complicare – ulteriormente il problema, perché entrano in gioco due personaggi ben noti nel panorama letterario latino del I sec. a. C.: Cornelio Nepote e Sallustio. Secondo l’epistola prefatoria, infatti,  il primo, autore di un’opera storica di impostazione biografica, avrebbe scovato, ad Atene, il codice contenente il testo della storia, e l’avrebbe tradotto per farne omaggio all’amico. Del resto, da varie fonti (per esempio in Poll. 7, 211 Bethe) risulta attestato nella città attica fin dal V sec. a. C. un fiorente commercio librario. E come Nepote della lettera dedicatoria è preso da passione per il testo di Darete, così, il più tardo Gellio, fra II e III sec. d. C.,  nelle Notti Attiche (9, 4, 1-5) affermerà di essersi soffermato, una volta arrivato al porto di Brindisi, presso alcune bancarelle, interessato ai fasci di libri che narravano vicende inaudite, fatti incredibili (res inauditae, incredulae), capaci di suscitare stupore e profondo interesse.



Dunque, con ogni probabilità, anche per quanto riguarda l’epistola premessa al testo ci troviamo di fronte a un ulteriore gioco letterario, perché non sono noti rapporti fra Sallustio e Nepote – che pure furono contemporanei e fra i quali sarebbe comunque plausibile pensare a un incontro. Ammesso – e non concesso – che il testo greco di cui si parla e quello latino attribuito a Darete siano il medesimo testo tradotto nella lingua dei Romani, in quale età potremmo quindi collocare l’opera greca letta da Eliano e Tolemeo Chenno, vissuti a cavallo fra I e II sec. d. C.? Sempre nell’epistola prefatoria, il traduttore latino – Cornelio Nepote, come si diceva, o chi per lui – insiste molto sul carattere razionalista del racconto di Darete, che volutamente non ha dato spazio a quegli elementi sovrannaturali tanto presenti in Omero. Tale intonazione razionalista è in effetti uno dei tratti più salienti della Storia della distruzione di Troia e si inquadrerebbe entro la cultura alessandrina del IV-III sec. a. C.: frutto maturo di questa temperie culturale fu anche, per esempio, la Storia sacra di Evemero di Messene, di cui ci sono pervenuti solo pochi frammenti: Evemero, storico e filosofo descriveva un’isola in cui avevano regnato uomini potenti, di nome Urano, Zeus, Apollo, i quali poi, in virtù delle loro benemerenze, sarebbero stati onorati di un culto divino, e quindi venerati in tutto il mondo come dèi.

Una tale visione razionalistica della divinità, del resto, era destinata, al di là del culto ufficiale, a permeare profondamente, fin dall’età arcaica, la forma mentis dei Romani: essa si ritrova infatti in uno degli storici più antichi di Roma, l’annalista Cassio Emina, i cui frammenti, in special modo quelli relativi al culto sacro e alle origini delle istituzioni civili e religiose, rivelano una forte impronta che potremmo definire, per così dire, illuminista ante litteram; e del resto, anche Ennio, il grande classico di Roma prima di Virgilio, scrisse un Euhemerus sive Sacra Historia. In altre parole, l’ambiente intellettuale romano era da sempre pronto a recepire un’opera elaborata da un autore ellenistico volto a demitizzare la più importante guerra mitica dei Greci, e per giunta dall’ottica dei Troiani, remoti antenati dei Romani.

Ovviamente, però, tutte queste restano ipotesi da tavolino, visto che, a tutt’oggi, non sono stati ritrovati testi greci attribuibili a Darete. In più, da alcuni anni, una scoperta ha aperto scenari ancora più problematici sulla trasmissione di questa misteriosa e affascinante opera: è stata infatti individuata una famiglia di codici che sembra offrire una redazione del testo più ampia e dettagliata. Si tratta di uno stadio della trasmissione anteriore a quello vulgato, o di uno stadio successivo, quindi interpolato?

Il lungo preambolo chiarisce, o almeno lumeggia, le fortunose e misteriose traversie attraverso le quali ci è pervenuto questo testo, la cui genesi è assai complessa, per non dire, forse, irricostruibile. Potrebbe trattarsi della versione latina, tradotta da Nepote, di un originale greco, romanzesco e insieme demitizzante, traduzione poi epitomata e giuntaci quindi in una forma linguisticamente seriore. Oppure, se non vogliamo attribuire nessuna credibilità all’epistola prefatoria, dobbiamo pensare a un tardo falsario latino, autore, all’incirca del V sec. d. C., di uno scritto dal carattere così particolare, e ideatore di un tale raffinato gioco di specchi per l’attribuzione della paternità dell’opera.

 Il filologo, quindi, si trova di fronte a una serie di complessi e ramificati problemi; il lettore colto, invece, si può dilettare con una traduzione che, come spesso accade alle opere di Canali, si legge con piacere, anche indipendentemente dal testo latino, ed è dotata, in alcuni punti, di un garbo e di una vivacità davvero inusuali in un testo classico. Per esempio, troviamo tre pagine in cui Darete – o chi per lui – descrive i guerrieri troiani e greci più celebri. Si tratta di ritratti accattivanti, insoliti, particolareggiati, e, a tratti, persino divertenti, che sicuramente desacralizzano il mito, e lo avvicinano a una misura più familiarmente umana, a partire dal lieve incespicare nella parole di Ettore, e proprio su tale brano ci piace concludere le nostre poche note di lettura : “Il re Priamo fu descritto di volto grande e bello, voce dolce e corpo esile. Ettore soffriva di una moderata balbuzie; era di carnagione chiara e di chioma folta e ricciuta, visto nobile di una lunga barba (…) bravo in ogni occupazione di pace e di guerra, generoso, sempre gentile con i suoi, degno quindi di essere amato, e capace di amare (…) Enea era fulvo di capelli, occhi neri, ben piantato, buon parlatore, affabile con tutti, sicuro di sé nei consigli, religioso (…) Ecuba era alta e sottile, di animo forte, quasi virile, giusta e religiosa. Andromaca aveva occhi chiari e carnagione candida, era alta e ben fatta, modesta, saggia. Casta ma gradevole. Cassandra era di statura media; aveva la bocca alquanto rotonda e labbra d’un rosso intensi, occhi splendenti, da indovina qual era. Polissena era di pelle candida e delicata, alta, bella; il suo collo era slanciato, gli occhi graziosi, i capelli biondi e lunghi; d’animo era semplice, cortese, tollerante, ed era la più attraente di tutte le sorelle e amiche (cap. XII, p. 23)”.

 


 Per la cui edizione rimando a M. Winiarczyk (ed.), Euhemeri Messenii reliquiae, Stutgardiae-Lipsiae 1991, mentre per la ricostruzione della vita e dell’opera dell’autore, cfr., sempre del medesimo autore, Euhemerus von Messene: Leben, Werk und Nachwirkung, München-Leipzig 2002.

 E, del resto, oltre un secolo dopo Ennio, anche l’autore dell’Origo gentis Romanae, che dichiara di rifarsi a Verrio Flacco, il quale, a sua volta, con ogni probabilità attingeva da Cassio Emina, afferma al cap. 3, in chiave evemerista, che Saturno arrivò in Italia dopo essere stato scacciato dal suo regno, Saturnus regno profugus, che corrisponde all’eminiano Saturnus post multas expeditiones postque Attica hospitia consedit, exceptus ab Iano, vel Iane, ut Salii volunt