Per un’intera settimana i fantasmi di Massimo Morasso hanno abitato insieme ai miei, sotto il cielo grigio di una Toscana che stentava a mettersi il vestito buono dell’estate, mentre affrontavo la lettura di questo viaggio, lungo alcuni anni, che l’autore presenta come “un mosaico inconcluso, come un insieme di testi indipendenti che rispondono però tutti alla volontà di insubordinazione al principio di realtà”. Un libro contro, sembrerebbe, per ammissione del suo stesso autore che, nel corso dei suoi scritti, spesso si osserva dall’esterno, arrivando a chiamarsi M. e a interloquire con se stesso talvolta con bonaria comprensione, talvolta con una certa minore simpatia. Io userò invece, copiandole per esteso, le parole di Igor Golomstock nella postfazione a Una voce dal coro di Abram Terz Sinjavskij per dire sinteticamente cosa può aspettarsi il lettore affrontando il testo di Morasso: esso “non conduce il lettore per la strada battuta di una trama verso il confortevole riparo di una morale, di un’idea, di una conclusione. La sua è una strada che si dirama in innumerevoli sentieri nella smisurata foresta della vita e, alla fine d’ognuno di questi sentieri, c’è una piccola isba su zampe di gallina delle favole, dove abitano il mistero, l’enigma, l’interrogativo che spesso ci inducono a toglierci rispettosamente il cappello e a fermarci con muto stupore di fronte all’incomprensibilità di cose che pur sembravano da tempo note e comprese”. 



Ma se è vero che il libro è una foresta intricata di sentieri, contravvenendo alle stesse indicazioni di lettura dell’autore ma rispettando credo lo spirito con cui egli ha dato quelle indicazioni, l’ho letto come un romanzo, dall’inizio alla fine, insomma, cercando di lasciare cadere dei sassolini durante la lettura, di tracciare delle mappe, di individuare dei percorsi magari utili per tutti quegli altri che abbiano voglia di affrontare il cammino dentro questo viaggio. 



Così proverò a dire che, se c’è da trovare una prima pista per la lettura di questo libro, essa è proprio questa: dietro alle singole, minute esistenze di ciascuno di noi, e dunque anche del signor M, c’è una maschera tragica, una sostanza misteriosa e impersonale alla ricostruzione della quale sembra che l’autore volga il suo sforzo principale. Come se il compito della vita intera, e dunque di questo stesso libro, non consistesse che in questa ricerca di una Verità che sta ben oltre le apparenze, di un Tempo che sta dove il tempo è soppresso, di cose ultime che si sentono come essenziali anche se gravose. Morasso dice di sé: “io sono solo un pover’uomo, con una gran sete di assoluto e un incommensurabile scontento di me stesso”. 



È la presenza sempre percepibile all’interno delle pagine di questa umanità sinceramente impegnata con la vita e con la verità che ci rende autenticamente partecipi di questo viaggio, e così un libro che presenta  anche ostici passaggi di riflessione filosofica, illuminate rivelazioni sul fare artistico e poetico, vigorosissime tirate contro l’establishement pseudoculturale, ci si apre invece come il diario di un uomo nel quale riconoscerci e con il quale domandarsi le due o tre cose che contano davvero nella vita e tentare di rispondere, o di trovare una risposta in altri che prima di noi si sono interrogati. 

È questo il senso dei molti passaggi del libro in cui autori e personaggi − reali della realtà apparente del divenire, o reali della realtà inventata dall’arte – vengono chiamati in causa, come compagni di viaggio e di avventura: Benjamin, appunto, o Rilke, o Florenskij, nel pensiero del quale Morasso trova “un nuovo modo di pensare… un sapere dell’antinomia e dell’ambivalenza fino a ieri sconosciuto all’orizzonte linguistico-filosofico in cui l’Occidente si è sempre riconsociuto”. Il tema principale è sempre lo stesso (e del resto, ve n’è un altro per cui valga la pena interrogarsi?): la vita e la morte, il tentativo di connettere l’ombra e la luce, di sanare la contraddizione tra il divenire e l’essere. 

In alcuni passaggi sembrerebbe raggiungibile questa possibilità attraverso un mondo intermedio, in “una striscia di terra fertile fra corrente e pietra ritrovata intatta” come dice il poeta. Cioè sembrerebbe che il Morasso uomo, e poeta, possa trovare una sorta di dimora felice in questo terzo escluso, in una parola che, al di là dell’episteme, è pienamente e veramente simbolo che sappia contenere storia e trascendente, trasformarsi in un’esperienza quasi mistica. 

Il viaggio del poeta approda forse a una sorta di poesia religiosa, o ancor meglio, a una parola come religione? Per fortuna non è così, è lo stesso Morasso a dire “Ma io non mi sono mai fidato della letteratura, né di chi la fa”. L’autore sa bene che la verità non sta nella parola, ma piuttosto nella metamorfosi del vivo: “l’incarnarsi del divino nell’umano è un enigma“, dice Morasso citando Mann, “è un fenomeno che ci richiama ai misteri più profondi della nostra fede cristiana“. E questo vale per l’uomo e per il poeta: un poeta è un poeta e aiuta il mondo a resistere, “il poeta è di casa soltanto nella sofferenza e nella carità. Che poi, sofferenza e carità, sono due dei nomi più giusti e più pieni di senso dell’amore”. 

Cosa deve fare un uomo per essere uomo? Cosa deve fare un poeta per essere poeta? Guardare dentro alle tenebre per strappare un significato alla luce. La storia intera, per Morasso, diventa la storia di un Dio che è amore, perfetta identità del divino e dell’umano, e in un passaggio del libro c’è un esplicito riferimento a un Cristo in croce con le braccia larghe, “un’immensa, eterna unificazione degli estremi nell’abbraccio della morte”. 

Il poeta e l’uomo attraversano il mondo con domande che non si possono accontentare dell’estetica, “l’estetica è un’ora breve” infatti e “l’idea della poesia non può più nulla contro l’esistenza che fila dritta verso la sua foce come un treno”. 

Il viaggio lungo questo sentiero si conclude con una certezza e una chiarezza magari sconfortanti per qualcuno – perché qui c’è uno che indica non una risposta ad un problema, ma un mistero più grande che li abbraccia tutti insieme − ma vere e necessarie: la poesia non salva la vita; ci vuole altro, ci vuole un Altro che rimetta insieme i pezzi, i fantasmi, le visioni, le sofferenze e le brevi gioie che la costruiscono. Ma l’uomo e il poeta devono continuare a interrogarsi, a costruire mondi, a dare un nome alle cose, non a raccontarsi storie, si badi bene, ma a continuare a trasfigurare la realtà. 

E pensare che questa è solo una delle tante vie che ho segnato, ho tracciato con la matita e i colori nelle pagine del libro. Ci sarebbero ancora da dire altre piste, altre vie; ci sarebbe da dire ancora come Morasso prenda sul serio il compito che ha individuato per l’uomo e il poeta, elaborando addirittura una sorta di programma per il futuro della cultura europea; ci sarebbe ancora da dire di come questo viaggio assuma in alcuni passaggi un registro ironico, autoironico e sagace; o di come emergano sempre preziosi suggerimenti per la costruzione di una poesia onesta della quale il mondo ha davvero bisogno. E di tantissimo altro ancora, però, perché questo è un libro che, come tutti i libri veri, percorrendo innumerevoli sentieri, apre possibilità infinite di lettura e continua a parlarci nel tempo con una voce − o più voci – che ci fanno compagnia nel nostro viaggio verso il destino.  

E noi, come dice ancora Golomstock “inoltrandoci per questi sentieri, noi sentiamo su di noi il respiro stesso della vita, il profumo dei suoi spazi, il suo pesante fluire e le sue impercettibili vibrazioni, ed è questo che costituisce il senso del libro, la sua ‘idea’, il suo aroma”.


Massimo Morasso, Il mondo senza Benjamin, Moretti & Vitali, 2014