La fioritura della città di Siena, a cavallo tra XIII e XIV secolo, è universalmente nota. Sul piano architettonico, urbanistico e artistico i soli nomi di alcune opere richiamano alla memoria un patrimonio di valore inestimabile: dal Duomo alla piazza del Campo, con il suo Palazzo e la sua Torre; dalla Maestà di Simone Martini nella Sala del Consiglio, a quella di Duccio di Buoninsegna per l’altare della cattedrale. Ma ciò che forse non sempre si ricorda è che quel complesso di interventi che ha coronato l’inconfondibile immagine di Siena appartiene a un’unica stagione, che coincide con una pagina di assoluto interesse nel panorama politico delle città medievali: il cosiddetto Governo dei Nove della «mezzana gente». 



A cavallo tra XIII e XIV secolo quel governo di popolo rimase al potere per circa settant’anni (una longevità di tutto rispetto per i tempi) ed incarnò le aspirazioni del ceto medio senese. Non sono solo gli storici di oggi che si interrogano sull’ascesa e declino dei Nove, ma anche gli stessi testimoni del tempo. Il poeta senese Bindo Bonichi, direttamente coinvolto nelle aspettative per quel governo di cui fece parte nel 1309 e nel 1318, denunciava la parabola compiuta proprio in quel decennio dai «mezzani»: assaggiato «el giglio e San Giovanni» (cioè il fiorino di Firenze) non si erano sottratti alla tentazione di tirannide, tradendo così le aspettative suscitate nella loro ascesa. Con maggior distacco critico Bartolo da Sassoferrato, il più importante giurista dell’epoca, considerava i Nove come «ordo divitum hominum» (ordine di uomini ricchi), che tuttavia governarono «bene et prudenter». Del resto il suo De Tyranno, nel quale ereditava il dettato di San Tommaso ed Egidio Romano, non era privo di realismo nell’affermare che «come è raro trovare un uomo completamente sano che non soffra alcuna malattia, altrettanto è raro trovare qualche regime nel quale si attenda soltanto al bene pubblico e nel quale non vi sia qualche aspetto tirannico. Sarebbe più divino che umano».



Come affrontare dunque la valutazione di quel ceto divenuto gruppo di potere, secondo i moniti morali del Bonichi o i giudizi politici di Bartolo da Sassoferrato? Cosa rese possibile quella fioritura della città proprio in anni di crisi economica e politica? Si tratta di domande prettamente storiche, che non richiedono risposte “in generale”, poiché questi interrogativi si impongono alla nostra attenzione al cospetto, e non a dispetto, di quelle realizzazioni che rendono Siena unica nella storia e nella cultura.

È su queste domande che gli atti del convegno recentemente pubblicati intendono far luce: Siena nello specchio del suo costituto in volgare del 1309-1310, a cura di Nora Giordano e Gabriella Piccinni (Pacini 2014). E lo fanno rilanciando nei lettori nuove domande: se la prima redazione in volgare di statuti di una città medievale ha rilevanza in vari campi (anche per la storia della lingua italiana), come valutare la decisione di un governo di parlare in volgare? Cosa accadde a Siena in quei primi decenni del Trecento e quali risposte gli uomini e la società del tempo elaborarono?



Siamo così condotti nella crisi finanziaria e nell’effetto domino provocato dal fallimento della Gran Tavola dei banchieri Buonsignori (1309), con il conseguente processo di de-internazionalizzazione della banca senese; oltre alle debolezze di un sistema privo di una forte struttura produttiva in grado di fornire una spina dorsale all’economia finanziaria. Le strategie operate dai Nove perseguirono l’obiettivo di assicurare la permanenza in patria dei capitali, blindando l’archivio della Gran Tavola; e difesero i ricchi banchieri, ritenendo questa scelta non ininfluente per tutta la città. Dopo la crisi delle società finanziarie internazionali avvenne così una riconversione dell’economia senese: l’investimento fondiario rappresentò una svolta essenziale, così come il prestito al Comune impegnato nelle complesse opere pubbliche già ricordate. La circolazione della ricchezza trovò nuovi percorsi, ad esempio con quella sorta di cassa di risparmio che fu avviata dall’ospedale Santa Maria della Scala, recentemente ricostruita da Gabriella Piccinni (Il banco dell’ospedale di Santa Maria della Scala e il mercato del denaro nella Siena del Trecento, Pisa 2012). Nacquero anche nuove forme di amministrazione fiscale, come la «Tavola delle Possessioni» (primo esempio di catasto descrittivo). 

Ma quel governo giunse anche a elaborare forme originali di comunicazione politica, come nel caso delCostituto in volgare (non fu solo una traduzione dei precedenti statuti), affinché potesse essere letto anche dalle «povare persone et altre persone che non sanno grammatica». Un Costituto nel quale i Nove, in 94 capitoli senza «soffismo e cavillatione», delineavano la composizione e i connotati di un governo di popolo, le prerogative e la disciplina (i membri erano sostituiti ogni due mesi), le competenze e i limiti, le ambizioni di una classe politica e il compito di difesa delle «ragioni» e dell’onore del Comune.

Solo questione di soldi o propaganda, dunque? Anche, forse, ma certamente non solo. Condivido in pieno la necessità, proposta da Gabriella Piccinni nel convegno citato, di comprendere i nessi tra diversi aspetti della vita di una comunità civile: il rapporto «tra le aspirazioni e i bisogni della gente», «la possibilità di soddisfarli che la società offriva loro e le forme che questa possibilità a sua volta determinava», la realizzazione di una sorta di welfare dell’epoca, con imprese della «carità pubblica», e «forme originali di comunicazione politica», come il volgarizzamento delle raccolte normative e stupendi cicli di affreschi, in «una società che voleva scoprirsi unita dall’idea del bene comune». Realizzazioni storiche contingenti, dunque, nelle quali trovano tuttavia espressione fini e principi che le superano.

Tre considerazioni finali. Si usa oggi diffusamente il termine “bene comune” contrapposto alla “tirannia”, una distinzione che abbiamo visto condivisa fin dai giuristi medievali: «diciamo che sia un buon regime, e non tirannico, quello nel quale prevale l’utilità comune e pubblica piuttosto che quella di colui che è reggente» (Bartolo da Sassoferrato). Una tradizione a cui si lega la nascita stessa del repubblicanesimo contemporaneo (si vedano gli studi di Maurizio Viroli). Ma sul piano storico non si deve dimenticare che un termine nuovo è stato introdotto al tramonto del Medioevo: la ragion di stato, dove lo status non indicava più il modo di essere di una entità (status civitatis, lo stare in piedi della propria civitas o della propria terra) ma l’entità astratta del Principe di Machiavelli, «Tutti li stati, tutti e’ dominii …». 

La seconda considerazione si colloca tra le righe del Buongoverno di Ambrogio Lorenzetti (1339), negli ultimi anni del Governo dei Nove. L’allegoria della corda che unisce (e lega) i «molti» che «acciò ricolti un Ben Comun per lor signor si fanno», può richiamare all’attenzione la comune origine linguistica dei termini “legame” (dal greco desmòs), “necessità-bisogno” o “dovere” (dal greco tò déon, ciò che è necessario): è l’ontologia dunque (il legame costitutivo, l’autocoscienza dell’appartenenza) che fonda la deontologia. E gli uomini del Lorenzetti afferrano quella corda liberamente, non ne sono legati loro malgrado. 

Se l’attitudine argomentativa, possiamo concludere, fondava la democrazia nel mondo greco (Aristotele), da quella tradizione non si distaccava il Medioevo delle città: compreso un governo che decise di parlare in volgare.