Quest’anno la casa editrice La Scuola ha mandato in libreria una raccolta di testi di Paul Ricoeur degli anni 1953-1968 sul tema dell’educazione e Vita e Pensiero, la rivista dell’Università Cattolica, ha pubblicato, sul numero di maggio-giugno, un articolo del 1960 di don Luigi Giussani: Il valore educativo della scuola libera (1960), Vita e Pensiero, 97 (2014), 3, pp. 5-13. Nella prefazione di Luca Alici alla raccolta ricoeuriana, si legge che, secondo il filosofo di Valence, l’istituzione non solo disciplina l’istinto, ma «costringe ad uscire dalla prospettiva assolutistica dell'”io”» (p. 17), esercita cioè, nei confronti dell’uomo, un compito non solo correttivo, ma molto simile, in definitiva, a quello esercitato dalla Chiesa ( Luca Alici (ed.), Il paradosso dell’educatore. Tre testi di Paul Ricoeur, La Scuola, Brescia 2014).



L’istituzione educativa è quindi, secondo Ricoeur, ben più di un tappabuchi della ragione, e allora il nesso che le sue parole consentono di stabilire è non solo col pensiero di don Giussani, ma anche con il Meeting di Rimini: l’espressione pubblica più imponente nata (nell’alveo educativo aperto da Giussani alla metà degli anni Cinquanta) dall’esperienza del Movimento ecclesiale di Comunione e Liberazione e che rappresenta, almeno indirettamente, un’espressione pubblica della fede della Chiesa.



Come infatti ha sostenuto Alberto Savorana, concludendo la presentazione del suo volume su don Giussani alla manifestazione riminese di quest’anno, dopo gli interventi di Shodo Habukawa, di Mauro Magatti e di Massimo Borghesi, il Meeting altro non è che il «tentativo di allenarci a sentire l’umano […] e intercettare la risposta». 

Per don Giussani, continuava Savorana, «il sentire l’umano non è una premessa che viene superata dal “bel giorno”, come lo chiamava lui, dell’incontro con Cristo, ma è il contrario. Per don Giussani il cristianesimo esalta la percezione della mancanza, della domanda, dell’esigenza, della ricerca, è l’inizio della lotta, questo accanito immergersi nella realtà». Consiste proprio in questo ribaltamento del modo di intendere il rapporto dell’uomo con Cristo il motivo per cui molti adolescenti e giovani, dei quali Savorana riporta le testimonianze nel suo volume, a partire dagli anni Cinquanta del Novecento, hanno potuto iniziare o continuare a essere cattolici solo all’interno di Comunione e Liberazione, approdando per la prima volta a una fede che non era più una risposta pronta, ma la percezione esistenziale che Cristo liberava la loro umanità: tra loro Pigi Bernareggi, Luigi Negri, Carlo Wolfsgruber, Giuseppe Zola, Adriana Mascagni, Angelo Scola, Massimo Camisasca, Francesco Ventorino, Giancarlo Cesana, José Miguel Oriol, Julián Carrón, Giorgio Vittadini, Carmine Di Martino, Aldo Brandirali, Aldo Trento.



Il già citato articolo di don Giussani su Vita e Pensiero e il Ricoeur del 1983 costituiscono un aiuto a comprendere perché la Chiesa (compresa Cl) proponga, per la liberazione dell’uomo, non solo Cristo, ma anche la Comunione: l’istituzione e l’autorità come necessarie per l’introduzione educativa dell’alunno alla realtà totale (Giussani) e la tradizione vivente della comunità storica come unico luogo in cui l’uomo può conoscere i valori metafisici e religiosi (Ricoeur). 

Credo però siano ancora una volta decisive le pagine di Savorana: è proprio in esse, infatti, che si capisce come, per don Giussani, la disgregazione post-sessantottina della civiltà cristiana era motivo non per rinunciare a proporre la Comunione della Chiesa come unico ambito di liberazione dell’umano, ma (finita la civiltà cristiana e quindi l’urgenza di difenderla) per iniziare a proporre il rapporto personale come unico modo per annunciare la Comunione. 

Per don Giussani il rapporto personale e il ripartire dalla presenza non erano sinonimi di quella “scelta religiosa” propria, ad esempio, della Fuci e rispetto alla quale, come emerge bene dal volume di Savorana, Cl si distanziò fin dai suoi primi passi nel 1969, riprendendo il metodo originario che egli stesso aveva proposto alla Gs milanese degli anni Cinquanta. Ecco allora che, nel 1980, don Giussani può dire a Giovanni Testori che «questo è il tempo della rinascita della coscienza personale» (nel senso che non si possono fare più «crociate organizzate» e «movimenti organizzati» per difendere una civiltà che non esiste più), ma sentire anche l’urgenza di rimproverare i ciellini della Cattolica per non aver preso posizione pubblica durante un’assemblea universitaria sull’occupazione, avvenuta quell’anno, dei cantieri navali di Danzica ad opera di Solidarnosc.

Si potrebbe forse dire che don Giussani aveva capito, nel 1968, che quel primato dello spirituale, proposto oggi da papa Francesco per la missione della Chiesa nei termini di un annuncio di Gesù Cristo che prescinda dalla contrapposizione con la sua antitesi ideologica (e di cui ho già parlato da queste colonne), dovesse avvalersi, per restare in vita in Europa, di una battaglia per la Comunione contro l’ideologia della disgregazione relativistica. Non per difendere la civiltà cristiana, ma per far sì che l’ideologia non vinca innanzitutto in noi stessi e non ci porti a pensare che il nostro cuore non è fatto per l’Assoluto.