La regina delle nevi non è una favola di Andersen, o almeno non lo è più da quando Michael Cunningham ne ha mutuato il titolo per il suo nuovo romanzo (aprile 2014).

La vicenda si sviluppa nella Grande Mela tra il 2004 e il 2008, a Bushwick (Brooklyn), lontano dai quartieri ricchi di Sex and the City, dall’allure della nuova Soho, dal fascino di Central Park, dalle alterne fortune di Wall Street.



I protagonisti, Barrett e Tyler (fratelli) e Beth (moglie di Tyler), vivono in un appartamento disastrato, lottando per rimanere a galla e per fallire nelle proprie aspirazioni individuali. Beth, eterea e quasi irreale, è il personaggio meno sfaccettato dei tre e combatte con un cancro al quarto stadio. Nulla la scalfisce, neanche la malattia, e niente fa pensare che se la prenderebbe se scoprisse, come facciamo noi lettori, che Liz (sua migliore amica nonché socia in affari) si è presa ottima “cura” di suo marito negli ultimi anni.



Barrett, il fratello più giovane, è gay e all’inizio del romanzo è stato appena lasciato dal suo fidanzato via sms. Non si capisce dunque se il suo incupimento sia caratteriale o piuttosto legato alla sfortunata vicenda. Nonostante una gioventù carica di aspettative per le sue capacità intellettuali, Barrett non riesce a completare nessun PhD sebbene possa recitare a memoria l’intera opera di Frank O’Hara. Finisce a vendere vestiti usati nel negozio di Liz e Beth, e a diventare la deriva emotiva del fratello. Non si concede dei percorsi emotivi che lo affranchino da lui.



Tyler è bello e atletico, musicista ancora incompreso nonostante i 43 anni suonati. Anch’egli si è lasciato alle spalle le grandi speranze della gioventù, alimentate da una madre con un debole per lui, morta prematuramente. Sempre sarcastico e pessimista, si esprime al meglio quando pensa alle imminenti elezioni e all’odiatissimo Bush. Estremamente critico con gli altri, riserva attenuanti solo a se stesso soprattutto quando pensa che qualche striscia di coca al mattino possa fargli trovare l’ispirazione giusta per scrivere musica di successo, finalmente.

Sullo sfondo di queste tre vite un po’ squallide si muovono altri personaggi marginali ma funzionali, che rinforzano la sensazione di mancanza di speranza che la malattia di Beth rivendica sin dall’inizio.

È sempre difficile superare se stessi soprattutto se, come Cunningham, si è stati premiati con il Pulitzer Prize for Fiction e il PEN/Faulkner Award (1999) per la stessa opera, Le ore (1998), originale, profonda e piena di spunti per noi lettori.

Anche in questo romanzo si conferma la sua propensione per le triadi. Se pensiamo a Le ore, Al limite della notte, Una casa alla fine del mondo e Giorni memorabili tutti presentano tre storie diverse che si intrecciano, o hanno come protagonisti tre personaggi che vivono insieme, di cui spesso uno gay o imparentato con un altro protagonista (meglio se fratelli).

La bella scrittura dell’autore, che insegna Scrittura creativa a Yale, ci guida nella storia un po’ debole del trittico Barrett-Tyler-Beth: nonostante un paio di trovate infelici che male si inseriscono nel corpo della vicenda (l’avvistamento di un Ufo da parte di Barrett proprio all’inizio, che forse è un’esperienza mistica, non si sa, e la morte della madre dei due a causa di un fulmine mentre gioca a golf), nonostante la scelta di un titolo che è già di una favola che poco si lega con la vicenda narrata (ma forse la regina delle nevi è la cocaina di Tyler), i mediocri Barrett e Tyler sono portatori sani del pensiero di Cunningham sul malfunzionamento del sistema. Attraverso il loro fallimento come individui con le carte in regola, che potevano confermare il sogno americano, dimostra come il corto circuito sociale si risolve sempre. Non importa pagare l’estratto conto di una carta di credito con un’altra, e poi di quest’ultima con un’altra ancora, senza avere i soldi per nessuna. Basta poi dichiarare bancarotta personale e ricominciare daccapo. Questo è un sistema che non ammette espiazione né autodistruzione, non consente all’individuo la via d’uscita dell’annichilimento. Bisogna continuare, pur nella mediocrità. Barrett ha tanti sogni ma l’unico posto dove esercita la sua superiorità intellettuale è la sua vasca da bagno. Tyler si ripromette da sempre di mettere da parte i soldi per una nuova casa in cui portare la malata Beth, ma alla fine prevale il suo egoismo da cocainomane. Non c’è tempo per pensare al domani, si può solo pensare all’oggi poiché la mediocrità non ammette di allargare gli orizzonti. Soprattutto con quest’America che vota Bush, che “non solo ne ha uccisi a migliaia, e ha ammazzato l’economia. È un personaggio costruito, il figlio limitato del privilegio protestante, riproposto come devoto fattore texano. È tutto un imbroglio …”. Il livore di Tyler ha poco a che fare con una favola, meno che mai con il finale che attende il lettore.