Seconda parte dell’articolo dedicato alla politica degli esponenti del Pci verso il Medio oriente. Il primo articolo: LETTURE/ Filo ebrei, anzi no: il Medio oriente “visto” dal Pci

Molti uomini dell’ebraismo erano confluiti, già dagli anni 20 del ‘900, con ruoli di responsabilità nei gruppi dirigenti comunisti in tutto l’Est europeo, a partire dal partito bolscevico. Trostkji ne fu l’esponente maggiore. Come scrisse Ernst Nolte, parlando di “bolscevismo ebraico”, dei 171 delegati presenti al VI Congresso del Partito bolscevico del luglio 1917, 29 erano ebrei. Hitler sosterrà in Mein Kampf che i marxisti erano solo delle marionette nella mani degli ebrei. Nel secondo dopoguerra il grande choc dell’Olocausto aveva contribuito a far superare la distinzione tra ebraismo e sionismo, il primo buono, il secondo cattivo. Vero è che Stalin e Beria avevano denunciato una congiura dei medici ebrei, che aveva portato all’arresto di alcuni eminenti clinici nel novembre del 1952. Così come è vero che in Polonia, paese dalla lunga e tragica catena di pogrom antiebraici, il Poup aveva a poco a poco liquidato i dirigenti di origine ebraica. E in Cecoslosvacchia l’ebreo Rudolf Slansky, segretario del Partito comunista, era stato impiccato nel 1951, dopo un processo a Praga, con un mix di giustificazioni, in cui entrava anche la sua identità ebraica, accusato da Stalin come altri dirigenti ebrei del partito di voler organizzare l’opposizione al regime. Va ricordato che Togliatti approvò l’intera operazione e, quando nel 1963, il Pc cecoslovacco si accinse a riabilitare Slansky, pregò l’allora segretario del partito fratello, Antonin Novotny – che sarà scalzato da Dubcek – di non rivelare nulla prima delle elezioni politiche italiane del 1963. 



La tiepidezza del Pci verso Israele non ha mai avuto nulla di ideologico in senso stretto, è stata la conseguenza di un allineamento del Pci alla politica mediterranea dell’Unione sovietica, considerata come un baluardo strategico contro l’imperialismo Usa. Vero è che stavano alle spalle le elaborazioni del 1844 di Karl Marx circa la questione ebraica, scritte in risposta alla Juden Frage di Bruno Bauer del 1843. Mentre l’esponente della sinistra hegeliana contestava le posizioni dell’ebraismo, volte a ottenere il riconoscimento confessionale dallo Stato prussiano, e invitava gli ebrei ad approdare all’ateismo per liberare se stessi e l’umanità intera dal peso oppressivo delle confessioni religiose, a Marx la dimensione politico-religiosa non interessava per nulla. Accusava gli ebrei di manovrare le leve del capitale finanziario. Come è evidente l’ebreo ateo Karl Marx riprendeva giudizi e pregiudizi cattolico-medievali relativi all’usura ebraica. Per Marx gli ebrei erano agenti del capitalismo borghese. Il suo antiebraismo sfiorava l’antisemitismo, senza le fondazioni etniche cui si appellerà il nazismo. Piuttosto ha certamente contato di più nel Pci il materialismo storico-dialettico di Marx, laddove questo non riesce a prendere atto dell’intreccio tra dimensione religiosa e dimensione politico-nazionale della storia ebraica e della storia in generale.



Ma, appunto, la dimensione prevalente nel determinare la posizione del Pci fu il rapporto organico con l’Urss. Ancora nel libro recente di Emanuele Macaluso, dedicato a Comunisti e riformisti, si giustifica quel legame con il ruolo oggettivo che l’Urss aveva assunto come polo alternativo al dominio dell’imperialismo americano. Perciò, quando nel 1952 l’Urss virò decisamente in una direzione filo-palestinese e “antisionista”, il Pci seguì pedissequamente. E se i movimenti di liberazione nazionale araba erano anti-israeliani, la causa era che il socialismo/laburismo israeliano era diventato un baluardo dell’imperialismo. 



D’altronde, perché stupirsi di tale deriva? Ancora negli anni 80 per Enrico Berlinguer la varie forme di socialismo/laburismo erano succubi del capitalismo e dunque dell’imperialismo. Il culmine della politica anti-israeliana del Pci fu toccato nel 1967 con la condanna della guerra dei sei giorni, scatenata preventivamente da Israele contro il crescente accerchiamento arabo. Negli anni 70 questa politica trovò notevoli complicità nel Psi di Bettino Craxi e nella Dc, preoccupati, dopo la prima strage di Fiumicino, che l’Italia diventasse un campo di battaglia del terrorismo palestinese e delle rivalità tra gruppi estremisti palestinesi. Il 17 dicembre 1973 un commando palestinese gettò dentro un Boeing 707 della Pan Am due bombe al fosforo, uccidendo 32 persone e ferendone oltre 15. Una seconda strage avverrà sempre a Fiumicino e, in contemporanea, all’aeroporto di Vienna, il 27 dicembre 1985, ad opera di Abu Nidal, provocando 17 morti, di cui 4 terroristi, e oltre 70 feriti. 

La posizione del Pci incomincerà a cambiare già con Enrico Berlinguer: dall’antisionismo si passerà ad una contestazione più laica della politica israeliana, benché i confini, teoricamente incontestabili, tra antisemitismo, antisionismo e anti-israelismo siano labili sul piano pratico. La risoluzione dell’Onu del 10 novembre 1975 che equiparava sionismo e razzismo venne fortemente criticata a sinistra. Un’altra tappa del cambiamento politico-culturale del Pci fu il dopo-attentato del 9 ottobre 1982, con una presa di posizione di Mario Pirani, Fiamma Nirenstein, Furio Colombo, giornalisti e intellettuali legati al Pci.

Sarà Giorgio Napolitano con un viaggio in Israele nel 1986 a determinare la svolta, cui daranno una spinta in seguito Achille Occhetto e Piero Fassino. Di qui un giudizio negativo sulla seconda Intifada, quella del 2002. Non senza contraddizioni: perché D’Alema sul Manifesto del 13 gennaio del 2009 accusò Israele di aver organizzato una spedizione punitiva a Gaza, per reazione all’ennesimo lancio di missili. Tornavano i vecchi fantasmi dell’anti-sionismo, accusato di fare il gioco dell’estremismo islamico. La concezione scacchistica della politica permetteva a D’Alema di ergersi ad autentico difensore di Israele, condannando l’estremismo israeliano, perché fomentatore di quello palestinese. Piero Fassino e l’intero gruppo dirigente presero le distanze da D’Alema, che continuava a muoversi secondo gli schemi del Pci degli anni 60.

Su questa linea sta coerentemente l’intera sinistra radicale, schierata a difesa totale di Hamas. Benché l’Anp abbia criticato le ostinate violazioni sistematiche della tregua da parte di Hamas, la sinistra radicale insiste sulle accuse di razzismo e addirittura di nazismo rivolte a Israele. Ma più che l’evoluzione ideologica interna della sinistra, ciò che sta cambiando i suoi parametri di giudizio è la fine del bipolarismo Usa-Urss, l’ingovernabilità crescente del mondo, lo scoppio di guerre regionali (papa Francesco ha parlato di una terza guerra mondiale a tappe; ma anche Kissinger, in un articolo sul Wall Street Journal, nel quale anticipa i contenuti del suo nuovo libro World Order ha alluso a qualcosa del genere). 

L’abbandono di mitologie ideologiche è forse più vicina, senza che questo, tuttavia, riempia automaticamente il vuoto di pensiero che sembra caratterizzare la politica estera europea e americana di fronte alle nuove sfide.

(2 – fine)