Il linguaggio di Papa Francesco è nuovo; davanti a questo “nuovo” c’è chi reagisce con preoccupazione – forse per necessità di attaccamento a qualcosa di rassicurante e di “sòlito” -, e chi vuol tirare le parole del papa verso la propria casetta “umanitaria”. Che sorprese invece nell’immergersi in queste parole. Già il Meeting di Rimini aveva nel titolo il concetto papale di “periferie” (“Verso le periferie del mondo e dell’esistenza”), e parole come “cultura dello scarto” stanno entrando nel linguaggio comune: basta farsi sfiorare da questi termini per “entrarvi dentro” e restare a bocca aperta.
Già nel 2009 al pellegrinaggio a Lujàn, Bergoglio assicurava che la Vergine “guarda in particolare ai figli che alla fine dei conti sono restati ai bordi della strada. Ai figli dello scarto”. Il termine “scarto” è usato dal papa sin da quando era arcivescovo di Buenos Aires (“descarte” e “rechazo”). Addirittura lui parlava di cultura del “volquete” che è in spagnolo il camion della spazzatura, o in senso più ampio il cassonetto. Alla messa per il patrono del lavoro, disse che “In Argentina c’è gente che viene trattata come scarti, in volquetes esistenziali”.
Il tema “scarto” traduce in linguaggio sociale quel termine filosofico caro a Benedetto XVI che era il “relativismo etico”. Tra la condanna della cultura del relativismo etico e quella della cultura dello scarto c’è un filo rosso, di amore alla persona, a tutte le persone; e questo legame stupisce non poco, dato che siamo spesso portati a vedere la storia come un contrasto e non come un passaggio.
Ma c’è di più. Chiamarla cultura dello scarto sottolinea un principio-chiave tremendo e vero: la cultura che respiriamo non è una cultura positiva, che afferma un ideale magari sbagliato, ma una cultura negativa, che scarta (butta via, spreca) quello che non gli serve, non comprendendo la bontà intrinseca di ciò che scarta e paradossalmente finendo per scartare anche quello che le sarebbe utile. Lo scarto è figlio di una mentalità che misura le cose e le sceglie in base al risultato di questa misura. E finisce col farsi del male.
Al termine “scarto” qui affianchiamo un atro termine che il papa usa più di rado e che aiuta a comprendere il primo, di cui sembra un sinonimo. Zigmunt Bauman, sociologo polacco, spesso lo usa provocatoriamente per accomunare nella stessa sciagura cose e persone: è il termine “rifiuto”.
Il termine rifiuto è ancor più radicale del termine scarto – e lo illumina -, perché implica che buttiamo via senza essersi presi la briga di soppesare cosa abbiamo davanti. Rifiutiamo di vedere: il dolore, lo spreco, l’umanità di chi apparentemente sembra inutile; rifiutiamo di sentire: il grido, il vagito, l’emarginazione.
In occasione della Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato, il 19 gennaio 2014, il Pontefice puntò il dito contro “il rifiuto, la discriminazione, i traffici dello sfruttamento, del dolore e della morte”. Il rifiuto è la faccia più radicale dello scarto: mostra paura, ansia, pregiudizio. È un atteggiamento esistenziale: il rifiuto di amare genera rifiuti fisici.
Infatti scarto e rifiuto esistenziali creano delle “periferie esistenziali”, cioè dei territori – fisici ma anche solo mentali − in cui si rinchiude quello che non si sa comprendere (quanto lontano questo dalla banalizzazione fatta dai media). Periferie sono fisicamente le baraccopoli, le favelas; ma in modo figurato sono la vita prenatale, la demenza senile, la dipendenza da droghe; periferie esistenziali sono però pure quegli ambiti della vita “qualsiasi”, in cui blocchiamo sotto vetro le nostre aspirazioni, subordinandole alla convenienza immediata (spesso di mira bassa e sbagliata) e quel desiderio di bellezza che nella mentalità occidentale lascia il passo alla convenienza, creando città-dormitorio, arte non più amata dal popolo, incapacità a creare lavoro, fruizione invece che amore per la cultura che ci circonda, mancata accoglienza del debole.
Il linguaggio papale non è “sociologico”, tale da essere tirato dalla parte di ideologie politiche, ma viene prima; e nemmeno taglia i legami con la storia che lo precede. Spiega che le periferie esistenziali sono nei sobborghi e nelle discariche; ma per essere lì devono terribilmente nascere da un deserto esistenziale; dalla periferia deserta dove il comune cittadino e il potente politico – come preconizzava Franz Kafka – attendono tutte le sere il messaggio dell’Imperatore del mondo che dal centro del suo impero pensa a loro, si avvicina a loro; ma che – quando giunge – trova il rifiuto di sentirlo.