In un giorno come oggi di 50 anni fa veniva presentato al Festival di Venezia Il Vangelo secondo Matteo di Pierpaolo Pasolini, per non pochi critici il più bel film di sempre su Gesù. Matera, che fu la location del film – non a caso la medesima scelta da Mel Gibson per il suo The Passion -, per commemorare l’evento ha organizzato una mostra tra le cui pieghe emerge la storia di un’amicizia inaspettata e importante, quella tra il regista e don Francesco Angelicchio (1921-2009) al tempo direttore del Centro Cattolico Cinematografico, l’ente il cui giudizio pesava molto sull’audience cattolica.
Chi conosce Pasolini però sa bene come denaro, successo e potere non fossero minimamente in grado di scalfire le sue decisioni artistiche. Lo dovette imparare a proprie spese Alfredo Bini, il produttore del film, che aveva intenzione di farne un kolossal in technicolor, a grande schermo, con protagonista un Burt Lancaster all’apogeo della carriera. Ma si dovette piegare alla volontà del regista che girò in bianco e nero, con attori sconosciuti e quasi sempre non professionisti, usando come testo le nude parole del vangelo.
Invece, per don Checco, Pasolini fece la rivoluzione: nella visione privata avvenuta con lui a montaggio ancora caldo, don Francesco fece considerare all’artista che un Cristo senza miracoli e senza Resurrezione veniva tradito nella sua identità più vera. Così Pasolini, a film già girato, tornò sul set, e aggiunse le scene dei miracoli e della Resurrezione, mancanti nella prima produzione. Lo documentano la sceneggiatura originale, e un’intervista Rai di Rossella Alimenti mai andata in onda, ma reperibile attualmente su Youtube (90 anni di Pasolini, Aula Magna Centro Elis, 2012.03.05). Lì, don Francesco racconta che nel 1962 Pasolini era ad Assisi e in camera trovò una copia del Vangelo che divorò in un pomeriggio (Bruno Mastroianni). “Qui c’è una sceneggiatura completa!”, confidò poi al sacerdote.
Su L’Espresso Moravia scriveva: “Alcuni critici si sono meravigliati che Pier Paolo Pasolini, scrittore marxista, traducendo sullo schermo Il Vangelo secondo Matteo, si sia mantenuto fedele al testo originale. Non c’è, infatti, incompatibilità assoluta fra il cristianesimo e il marxismo? In realtà Pasolini s’è mantenuto soprattutto fedele a sé stesso”. Ritrovo in queste parole il midollo del rapporto con Angelicchio e il movente del ripensamento: l’amicizia come luogo ove il privilegio è la custodia dell’identità dell’altro (Giussani). Trovo cioè nell’amicizia di don Checco con Cristo e col regista, la capacità di costruire quei ponti che molti intellettuali ritenevano impossibili. Don Francesco era il primo italiano dell’Opus Dei e aveva con il fondatore – Escrivá – un rapporto molto intimo.
Quando, una volta sacerdote, gli venne proposto di essere direttore del Centro Cattolico Cinematografico, esitò molto e chiese un consiglio a San Josemarìa che gli disse: “Non vai a fare il censore ma l’amico: con un’amicizia di cui spesso gli artisti non hanno idea perché il più delle volte quelle del mondo dello spettacolo sono amicizie interessate. Loro non verranno da te. Sei tu che devi andare da loro”.
Così don Francesco strinse con infinito affetto amicizia non solo con Pasolini, ma anche con Fellini, Rossellini, Olmi, Lilliana Cavani. Chi dubitasse che quello con Pier Paolo Pasolini fosse affetto vero, dedichi cinque minuti all’intervista che gli è stata fatta poco prima di morire. Don Checco racconta un particolare poco noto, e cioè che Pasolini scelse sua madre per impersonare Maria nella scena della deposizione. Sua madre: cioè, proprio la mamma di Pier Paolo. E don Francesco, con infinita tenerezza, dice: “L’unico amore femminile che ha avuto, perché lui amava molto sua madre”. E poi si commuove.