Caro direttore,
mi sembra che Angela Merkel (1954) si trovi completamente, pur nelle distinzioni che il nostro tempo richiede, nella tradizione cristiano-democratica che in Germania, a partire dal secondo dopo guerra con la straordinaria figura di Konrad Adenauer (1876-1967) e attraverso i sedici anni di cancellierato (1982-1998) di Helmut Kohl (1930), giunge fino alla terza legislatura di questa figlia di un pastore protestante della ex DDR. 



Sono cosciente che questo giudizio non è condiviso da moltissimi cristiani conservatori tedeschi, molti dei quali ora appoggiano il partito nascente “Alternativa per la Germania” (Alternative für Deutschland, AfD), che il fine settimana scorso ha raggiunto in Sassonia circa il 10 per cento dei voti; ed io stesso per un certo periodo di tempo ho pensato che Angela Merkel fosse solamente la personificazione dello “spirito protestante e l’etica del capitalismo” (Max Weber) e che avesse una definizione molto confusa di cosa sia una famiglia.



Ma il mio giudizio è cambiato vedendola agire in un contesto di crisi sempre più drammatico: anche nella crisi finanziaria più acuta non ha mai rinunciato ad una solidarietà europea, anche se suppongo che vista dal sud dell’Europa, insomma dall’aerea mediterranea, questa mia affermazione sia dura da digerire. E in questi tempi di guerra cerca una terza via tra Usa e Russia, con una chiara posizione atlantica, ma con una capacità di dialogo (visto anche il fatto che conosce il russo in modalità dirette e personali) con la Russia. 

Ha ragione Stefan Kornelius nella sua monografia su Angela Merkel (Die Kanzlerin und ihre Welt, Amburgo 2013) quando afferma che il tema Russia, come vicino dell’Europa, non può sparire, anche se la cancelliera ha dovuto certamente subire, in modo particolare nella crisi drammatica che si svolge ora in Ucraina, una certa delusione: Putin non diventa più facile col passare del tempo, ma più difficile, più duro e in certe frasi degli ultimi giorni sfrontato e sfacciato. Queste frasi mi hanno fatto venire in mente l’affermazione di un caro amico, professore di scienza del linguaggio, Andrzeij de Vincenz, morto quest’estate all’età di novantatre anni, di origina polacca, e che avevo dimenticato per via di un certo equilibrio politico mostrato da Putin l’anno scorso nella crisi siriana: il linguaggio dell'”eterno Putin” (Stefan Kornelius) è quello stalinista.



Per quanto riguarda la ricchezza economica della Germania, questa dev’essere interpretata come un bene per tutta l’Europa; che la cancelliera cerchi con una politica della responsabilità economica di far sì che essa non vada persa, mi sembra una cosa ovvia ed anche ciò che permette la realizzazione del pensiero della solidarietà.

Uno dei grandi scienziati della politica tedeschi, Herfried Münkler (1951), nel suo acuto libro sulla prima guerra mondiale (Der grosse Krieg. Die Welt 1914-1918, Berlino 2014) ci lascia riflettere su una questione decisiva per la politica europea: il fallimento della Germania nella stabilizzazione dei rapporti di potere in Europa nel 1914 ha avuto conseguenze tragiche e si è verificato non perché la Germania fosse più sottoposta alla “volontà di potenza” (Friedrich Nietzsche) di altre nazioni: questo non è vero né sulla questione coloniale, né per quanto riguarda i rapporti interni all’Europa.  

Dopo gli anni novanta dell’ultimo secolo la Germania è diventata, attraverso la riunificazione, nuovamente “una grande potenza nell’Europa centrale” (p. 24); ovviamente bisogna considerare il “mutatis mutandis” nei confronti del 1914, in primo luogo il fatto che la potenza di cui qui si parla è economica e non primariamente militare, ma vi è una similitudine. Non dobbiamo isolare la Germania: questo non può che portare a conflitti pesanti e non necessari. La Germania della Merkel non vuole isolarsi, ma prendere sul serio quelle che Münkler chiama “die Herausforderungen der Position der Mitte” (le sfide di una posizione del centro). 

Una posizione che sarà tutta da inventare, ogni giorno di nuovo, perché le sfide della globalizzazione sono sempre più acute. Sfide che devono essere affrontate tendendo conto di tutto il mondo e degli “stati-continenti” di cui parlava Alberto Methol Ferré (cfr. Alver Metalli, Il papa e il filosofo, Siena 2014, 69-70), e data l’elezione di un papa latino-americano, anche e soprattutto di questo continente (come ha detto presentando il libro di Metalli, Guzmán Carriquiry, il giurista della Santa Sede latino-americano al Meeting di Rimini) che è il continente natale del papa. “L’evoluzione del mondo tende alla formazione di stati-continenti” (Ferré in Metalli, 69): una posizione europea del “centro” dovrà tenere conto di questa dimensione mondiale. La cancelliera è forse più orientata ad un dialogo con l’America del nord, in modo particolare con gli Stati Uniti, e questo fa certamente parte della sua tradizione protestante, ma pur in questo limite essa è e rimane un fattore stabilizzante per l’Europa. Anche per la sua sobrietà politica, che è per l’appunto priva di ciò che Massimo Borghesi chiama, in un suo libro che esamina la lunga, particolare tradizione che va da Agostino a Ratzinger, “teologia politica”.

E proprio di questa posizione stabilizzante del centro abbiamo bisogno in questo tempo di guerra. Anche se forse da noi si tratta più di lotte economiche, rimane il fatto che i conflitti militari, come si è visto negli anni novanta nella ex Jugoslavia, e come vediamo nel nostro vicino europeo, l’Ucraina, possono coinvolgere anche noi – e di fatto coinvolgono già noi nelle diverse missioni in Afganistan, etc. ma anche nella vendita delle armi. Sarà bene così ricordarci ciò che in tutta chiarezza dice il grande storico della prima guerra mondiale australiano e docente a Cambridge, Christopher Clark (1960): una guerra tra le grandi potenze è il peggio che ci possa accadere (The Sleepwalkers, edizione tedesca del 2014, p. 315).

Quindi, se mi è lecito dare un “consiglio” ad una persona come Angela Merkel, questo non sarà tanto quello di una critica improntata all’egoismo economico, ma semplicemente il rilievo che tutti possiamo salvarci solo se “the real reality, the ‘natural’ form, of politics reflects the figure of Christ” (Roberto Graziotto, How christians should think about politics. Reflections in a time of war, Communio 2004): dobbiamo meditare concretamente, ognuno nel proprio compito politico e lavorativo, la figura dell’Agnello immolato che non immola nessuno, non per pacifismo, ma perché crede nella forza dell’amore di “fermare” (papa Francesco nell’aereo che lo riportava a Roma dalla Corea) il nemico; il quale, come sottolinea Alberto Methol Ferré, non è mai solo nemico, ma uno che dobbiamo amare come ci invita a fare Gesù e di cui dobbiamo essere disponibili, senza perdere un giusto e necessario realismo politico, a trovare il suo “meglio” (Metalli, 54).

Ci sarà anche bisogno di un discernimento del”nemico capitale” senza il quale, dice sempre Ferré, non potremo rispondere al compito primo del cristiano: quello della “missione”, dell’annuncio della gioia del Vangelo, come ci ha invitato a fare il papa nella sua esortazione apostolica programmatica Evangelii Gaudium. Con le parole di Methol Ferré esprimerei questo contenuto “missionario” nella frase seguente: “nel nemico c’è l’amico che deve essere riscattato e salvato. Abbiamo bisogno di renderlo amico, trovare l’amico che c’è nel nemico, sapendo che il nemico ce l’abbiamo spesso in noi stessi” (Methol Ferré in Metalli, 55).

Ora, per quanto riguarda la politica europea ed occidentale, Angela Merkel non è da considerare come una “nemica”, ma come un’amica, perché accetta tutta la sfida della posizione del centro di cui ho parlato. Se una critica è necessaria, e certamente lo è perché è necessaria per tutti, è un’altra. Se il filosofo latino-americano ha ragione a dire che spesso abbiamo il nemico in noi stessi, allora questa sarà l’integrazione cattolica della sua posizione protestante nel contesto di tutti gli “stati-continenti”, in primo luogo quello latino-americano di cui ho già parlato. E che nella figura di papa Francesco ci invita sempre più chiaramente a guardare la figura di Gesù. Solo isolato il protestantesimo corre il rischio di diventare un “nemico” o essere asservito al “nemico”, che a livello neotestamentario ha un nome preciso. Sarà necessario superare un’unilaterale visione “protestante” occidentale (Usa e Europa) ed imparare dall’ America Latina e in modo particolare dal suo figlio più grande, il papa, a guardare la figura centrale di questa visione, che è la figura di Gesù Cristo, Figlio trinatario del Dio vivente, l’agnello immolato che non immola nessuno. Anche se tutto ciò è detto in linguaggio teologico o filosofico, la posta in gioco non è solo religiosa; se fosse così proporrei solo un’altra variante della “teologia politica”. Guardare alla figura di Gesù vuol dire, come si vede nella critica sociale della Evangelii gaudium del papa, un’opzione preferenziale per i “poveri”, un’attenzione a loro non solo caritativa, ma anche, per l’appunto, sociale. Lo spirito protestante e l’etica del capitalismo isolato non potrà salvare se stesso e la propria ricchezza se non si lascia integrare in una visione universale che vede tutti gli aspetti della realtà e che saprà valorizzare la povertà stessa − non la miseria − come un modo di vivere che è realmente un’alternativa al consumismo libertario e libertino in cui si sta perdendo il nostro modo di vivere occidentale.