“La pagina più corale di un mondo nitidamente alluminato, ritrovato di colpo, ad apertura di libro”. Così Roberto Longhi si avviava ad una delle pagine più suggestive e decisive della critica d’arte del Novecento, dedicata al Battesimo di Cristo di Piero della Francesca. Difficile anche per noi non restare senza fiato davanti all’istantanea suprema armonia di luci, colori e piani prospettici dispiegati sulla tavola, oggi conservata alla National Gallery di Londra. Ma, come spesso accade nella pittura di Piero, questo primo stupefacente impatto è il primo suggerimento per inoltrarsi in profondità lasciando che quel riverbero di bellezza riveli la sua capacità di senso e la sua perenne attualità.
Questo doppio registro spiega perché le opere di Piero, le più spettacolari e, quindi, apparentemente le più effimere del Quattrocento italiano, siano state anche le più indagate a livello iconografico. Non vogliamo però introdurci in tali spericolati percorsi, ma solo fermarci all’evidenza di alcuni dati figurativi lasciandoci provocare da alcuni sintomi di “resistenza” a riconoscere un significato più profondo, rilevabili nella stessa pagina longhiana.
“Nessun contrasto, dunque tra l’uomo e le sue circostanze” osserva acutamente il grande critico piemontese, il quale subito ci sconsiglia di cercare un punto generatore di quella concordia: “l’apparente centralità sacramentale del Cristo si smaga così per via di tutti gli altri soggetti che occupano alla pari gli spazi liberamente commessi”; tanto che in chiusura tiene a rilevare l’assenza di “subordinazioni gerarchiche e alla fine teocratiche” in quella “calma supremamente spettacolare”, diffusa “dal ghiareto del fiume alla testa del Cristo”.
Il discrimine è sottilissimo. Quella definizione “sacramentale” della centralità di Cristo ci risulta infatti perfetta, ma non come apparenza che si sfuma nel tutto, quanto come presenza che s’impone, nella sua luminosa e carnale iconicità.
In essa Piero sembra saldare “per figuram” l’oriente e l’occidente cristiano, senza inserire dettagli enigmatici di cronaca contemporanea, raccolti dalle sedi dei concili di riunificazione, ma solo facendo il suo lavoro di pittore sul ricordo di mosaici ravennati e centrando la questione facendoci fissare lo sguardo su Cristo.
Soprattutto Piero rende con straordinaria evidenza il valore epifanico del Battesimo di Gesù spiegandoci perché liturgicamente la sua ricorrenza chiude il tempo del Natale: è la manifestazione del Verbo fatto carne, della luce che risplende nelle tenebre, come si legge nelle prime battute del vangelo di Giovanni.
L’armonia nella realtà non si dà da sé e tanto meno riesce a crearla l’uomo, può solo essere generata da Dio che diventa uno di noi e immette una nuova forza provvidenziale nel tempo e nello spazio. E’ un miracolo — il flusso del Giordano si ferma e arretra — che apre tutta l’umanità a una nuova prospettiva.
Di questo annuncio il dipinto di Piero dichiara la promessa della vita eterna e il dramma della libertà. La sconfitta della morte si riconosce in molteplici segni: il frondoso albero (della vita), il borgo di San Sepolcro “quasi Hierusalem” sullo sfondo, l’accenno paradisiaco di canto e di danza dei tre angeli. Il rischio della libertà si percepisce nello slontanamento dei leviti, intellettuali bloccati su ciò che già sanno e sulle loro interpretazioni, mentre un puro di cuore si spoglia (dell’uomo vecchio) e decide di seguire Cristo, innanzi tutto preparandosi al Battesimo, che gli guadagna subito un corpo bello e luminoso come quello di Gesù.
La preminenza di Cristo, quasi custodita dal gesto e dalla postura del Battista, non toglie, ma genera quello spettacolo di armonia, entro il quale trova campo l’esercizio della libertà di ognuno di noi di fronte all’attrattiva di Gesù.