Lo scorrere dei giorni permette di ritornare sulle cose con una serenità che spesso la foga del momento non concede, costringendo sovente gli osservatori a semplificare e a trattare ogni questione all’interno di riduzioni giornalistiche che fanno male al pensiero e che non sono di alcun aiuto al cuore e al cammino di ciascuno.
Qualcosa di analogo è accaduto in questa settimana in cui un altro capitolo della “terza guerra mondiale a pezzi” è andato consumandosi sul suolo europeo con la triste vicenda dell’attacco allo Charlie Hebdo. Infatti, accanto ad accorate prese di posizione in favore della libertà di espressione e di satira, in molti è sorto come un tarlo che ha spinto a rileggere le vignette del giornale francese con una sorta di amarezza e di biasimo per il pessimo gusto di alcune battute. Tale atteggiamento — per altro comprensibile — ha posto interrogativi non banali sul senso della libertà di pensiero e di stampa, sul limite che certe prese di posizione possano avere rispetto ai sentimenti e alle convinzioni degli altri, e ha generato uno sdegno che talvolta ha sfiorato il “se la sono cercata“, un pensiero inconfessabile e terribile che ha pervaso e diviso molti ambienti del consesso europeo.
Di contro è innegabile che abbia preso corpo una voce di crescente indignazione verso l’islam, voce che è arrivata a contestare tutte quelle posizioni politiche e culturali giudicate troppo tiepide nei confronti del mondo musulmano, impegnato — secondo questa linea — in una guerra santa verso l’Occidente. In mezzo a simili marosi si sono posti i media occidentali che, in queste ore, stanno puntando sulla grande manifestazione di Parigi, cui parteciperanno i principali leader europei, per sancire agli occhi dell’opinione pubblica mondiale la nascita laica e solidarista dell’unione politica del continente cercando, ancora una volta, di riproporre il facile schema — sempre efficace da Napoleone in poi — del mondo oscurantista delle ideologie in opposizione al mondo libero della democrazia borghese.
La tentazione, in un frangente così frastagliato e ondivago, è quella di schierarsi rigidamente senza pensare agli elementi di profonda verità che tutte queste vicende si portano appresso, elementi che si potrebbero ricondurre a tre.
1. Il primo, senza dubbio, riguarda la constatazione di trovarci davanti non ad un problema di religione, ma — direbbe Benedetto XVI — di “ragione”, di “umanità”. Papa Francesco, l’altra mattina a Santa Marta, ha fatto pregare per la crudeltà degli uomini, ossia per la nostra incapacità di “sentire” il male che arrechiamo alla vita dei fratelli. Il cattolicesimo insegna all’Europa che il male non sta mai in un’idea o in un credo, ma risiede nella natura dell’uomo, ferita dal peccato e dall’impossibilità di essere pienamente libera. Se questo è vero, l’amara verità è che i terroristi sono proprio come noi, uomini come noi, con la stessa possibilità che abbiamo noi di consegnare la vita ad un’ideologia distruttrice.
In questo senso è evidente — e il fatto che non sia percepito preoccupa molto — come il primo malato oggi non sia l’islam, ma il cuore dell’uomo, al punto tale che la prima domanda che andrebbe posta non riguarda tanto il “che cosa fare” verso l’islam, quanto il “come prendersi cura” di me, del mio cuore crudele.
Qual è quindi, in definitiva, il rimedio reale a tutto quello che sta avvenendo? Forse la guerra? Forse la strategia? Che cosa può realmente rispondere al male che vediamo sotto i nostri occhi? Se uno non parte da questo punto ha già perso, è già sconfitto, perché prova a quietare il sintomo, ma non si preoccupa del dramma della malattia.
2. Il secondo elemento di verità, in quest’ottica, è dunque di tipo culturale e si può riassumere così: l’occidente non sta facendo niente per l’islam. È palese infatti che, salvo alcuni casi in cui persone musulmane si pongono criticamente nei confronti della loro religione (basti rivedere le parole pronunciate in questi giorni dal presidente egiziano), la stragrande maggioranza del popolo è in mano a correnti integraliste che — per un disegno di potere e di dominio — incitano alla violenza e alla guerra. Nel discorso di Ratisbona Benedetto XVI indicò con precisione la strada da percorrere verso costoro: l’occidente, con l’ausilio del proprio patrimonio umano e culturale, avrebbe dovuto aiutare il mondo islamico a purificarsi, ad abbracciare una lettura della propria fede dentro i confini della ragione, senza cedere al facile ricatto degli estremismi che semplificano il credo, ma la rendono incapace di contribuire al bene di tutti.
Domandiamoci, quindi, che cosa l’Europa ha fatto in questo senso, quali piani di integrazione e di incontro seri(vengono alla mente iniziative “dal basso” come il “Meeting del Cairo”) abbia intrapreso, quali borse di studio per coloro che intendono studiare il Corano con un approccio metodologico più incline alla critica storica e letteraria abbia elargito, che tipo di relazioni con i seguaci di Allah che vivono sul nostro territorio sognando una fede più matura e vivificante abbia intessuto. Luigi Giussani soleva dire che, dinnanzi alla moltitudine delle religioni, ciò che conta non è scegliere a priori quella giusta, ma andare a fondo della propria tradizione culturale fino a giudicarne tutta la convenienza umana e spirituale. È questo l’aiuto che l’occidente potrebbe dare all’islam, ed è questo il punto di non ritorno per i credenti in un’epoca in cui la Chiesa ha chiaramente scelto il dialogo come via al rapporto con le altre religioni.
3. Il terzo elemento di verità è, allora, la libertà dell’occidente, una libertà intrinsecamente determinata dal cristianesimo. Noi viviamo infatti in un ambito culturale e religioso in cui si può perfino deridere Dio. Questo contesto, impensabile per ogni altra civiltà, non è sorto casualmente, ma all’interno di una precisa storia che rende oggi possibile questo articolo e che rende legittima l’esistenza di Charlie Hebdo, un’esistenza mai distinta dalla responsabilità che essa comporta.
È questo che il cristianesimo ha insegnato all’Europa: il mondo classico, infatti, era incapace di concepire il fatto che le azioni avessero conseguenze definitive e durature nella vita dell’uomo, tanto che per Origene (il più greco degli scrittori ecclesiastici) il mondo sarebbe finito in una sorta di “ricapitolazione universale” in cui tutto sarebbe stato non solo perdonato, ma sostanzialmente annullato. È stato Agostino, e con lui i Padri della Chiesa, a rendere consapevole l’uomo europeo delle ripercussioni delle proprie azioni e della fragilità della propria natura, mostrando a tutti che non esiste libertà senza confine o umanità senza limite.
Paradossalmente, come dice il Concilio Costantinopolitano III, più l’uomo si è avvicinato a Dio più, nei secoli volgari, è diventato uomo, ossia creatura capace fino in fondo di assumersi l’onere della propria crescita e del proprio sviluppo. E’ da questa apertura originale dell’Io, cui Cristo nel Getsemani si è consegnato, che sono sorte le grandezze e le miserie dell’occidente, è grazie a tutta questa libertà che la ragione è potuta fiorire o impazzire, che la capacità umana di relazione si è potuta istituzionalizzare e sacramentare per poi oggi, nei tempi moderni, frantumarsi fragorosamente.
Noi, come singoli e come nazioni, siamo davvero il frutto di un incontro — quello con Cristo — che è l’atto fondativo del nostro stesso essere persone e della nostra stessa convivenza sociale. Di questo incontro, che ci rende liberi da ogni derisione e da ogni fanatismo, oggi più che mai hanno bisogno tutti i nostri fratelli uomini che — nel loro cammino verso il bene — talvolta dimenticano la natura del loro Io e consegnano se stessi al potere e all’ideologia. Esattamente come accade anche a noi che questo incontro magari lo abbiamo pure fatto.
Davvero tutti, quindi, abbiamo bisogno di ripartire dall’essenziale, da qualcosa che ci curi e che si prenda cura di noi, Qualcosa che vive e abita nel reale e che ognuno può scegliere di vedere e di seguire. Tradire quest’ultimo bisogno vorrebbe dire tradire noi stessi, la nostra storia, il metodo con il quale Dio — inoppugnabilmente — ha scelto di salvarci. E significherebbe, forse, condannare l’Europa ad un’ultima e — come direbbe Hannah Arendt — “banale guerra”.