Pochi punti, poche impressioni prima che i volti dei redattori di Charlie Hebdo svaniscano dalla memoria collettiva. I volti.
1. Forse soltanto chi ha passato gran parte della propria vita in un altro continente (per esempio, quello nordamericano) può sentire pienamente la “europeità” dei volti dei redattori assassinati di quel settimanale parigino. Ogni volta infatti che si passa da un aeroporto statunitense a uno italiano si rinnova con sempre uguale forza la stessa impressione: tutto in Europa appare più minuto, più fragile, più garbato. Anche i corpi e le fisionomie, naturalmente (se il nuovo conformismo sembra aver censurato il termine “razza”, sarà almeno permesso non rifiutare l’evidenza dei sensi, e notare l’esistenza di diversi tipi etnici).
I volti di quei redattori avevano lineamenti delicatamente sfumati — i lineamenti che gli artisti medievali lavoravano nell’avorio o dipingevano nelle miniature o scolpivano negli angoli delle cattedrali. Le facce nordamericane, per contro, riflettono generalmente (è ovvio che esistono sempre le eccezioni) una cultura emersa secoli più tardi — una cultura più austera (si potrebbe quasi dire, tagliata a colpi d’accetta), una cultura che diffidava delle immagini più o meno devozionali. In omaggio allo stile aforistico di quel proto-vignettista che era Oscar Wilde, si potrebbe dire che i visi europei sono in generale “cattolici” (anche quando appartengono a protestanti o atei o cultori di altre religioni), mentre i volti statunitensi sono in linea di massima “protestanti” (anche quando pertengono a cattolici, o a cultori di altre religioni, o agli atei).
2. Con ciò non si vuole certamente dire che quelli di Charlie Hebdo fossero dei santi — nemmeno degli stinchi di santo, erano. Sì, i loro erano visi finemente intagliati, visi di intellettuali: però erano anche facce birichine, fra lo sventato e l’ironico. Dunque, attenzione: chi (con tono di scusa o di condanna, non importa) sentenzia che le loro vignette erano spesso e volentieri “volgari” non ha capito quale fosse, e sia, la posta in gioco. Quelli di Charlie Hebdo non scrivevano e disegnavano immagini volgari; coltivavano “il cattivo gusto”, che è una cosa ben diversa. Dalle avanguardie modernistiche in poi (dunque, da più di un secolo) dovrebbe essere chiaro che la coltivazione del cattivo gusto è un’opzione estetica essenzialmente allo stesso livello del cosiddetto “buon gusto”: la parola chiave è gusto (appunto, una categoria estetica) e non l’attribuzione secondaria del qualificativo “buono” o “cattivo”.
La volgarità invece si colloca al disotto dell’estetica, nel mondo della corruzione sistematica del gusto: gli slogan politici e pubblicitari sono intrinsecamente volgari, mentre le vignette non lo sono mai, per definizione; perché rappresentano, a modo loro, un impegno conoscitivo. Il che significa che quei redattori erano inevitabilmente (piaccia o no), nei loro peculiari modi, poeti: poeti da strada (e un po’ tutti i poeti lo sono), poeti-saltimbanchi o poeti-giullari o poeti-menestrelli (e che cos’altro sono, i poeti — dai trovatori medievali a san Francesco a Palazzeschi e oltre?); ma insomma, poeti.
E non si capisce la peculiarità della tragedia parigina fino a che non la si definisce per quello che veramente è stata: un assassinio in massa di poeti.
“E’ morto un poeta!”, pare avesse gridato Alberto Moravia a Roma, la mattina in cui fu scoperto il corpo di Pier Paolo Pasolini; ed è quello che sarebbe stato bene urlare a Parigi pochi giorni or sono: “Hanno ucciso dei poeti!”. Il che non significa (a scanso di demagogismi, che pure si sono già ascoltati) che la loro morte sia stata più tragica di quella degli altri: siamo, tutti noi, uguali ed umane creature di fronte a Dio. Ma bisogna anche avere la chiarezza, e il coraggio, di dire che la morte di un poeta — qualunque tipo di poeta, in qualunque lingua e tradizione artistico/letteraria, in qualunque parte del mondo — è particolarmente tragica: perché il poeta (anche quando fa il vignettista) trascende continuamente la condizione umana, evoca l’immortalità. E chi tronca questa speranza d’immortalità compie “il più brutale di tutti i troncamenti” (the most unkindest cut of all), come scrive Shakespeare nel Giulio Cesare.