I fatti di Parigi e il flusso ininterrotto di cronache e commenti che ne sono derivati hanno evidenziato anche molta retorica e molta confusione. Non è una accusa, ma una rilevazione, dato che non è facile per nessuno, politico, intellettuale o uomo del popolo che sia, dire parole utili e intravvedere una strada comune.
Gli attentati mi hanno colto mentre per caso stavo rileggendo una introduzione all’Eneide, in cui si faceva riferimento alla volontà del poeta di distruggere il suo poema, non solo perché imperfetto dal punto di vista formale, ma soprattutto perché incompiuto nella sua concezione. Vinse poi, per fortuna, il volere di Augusto, che voleva servirsi dell’opera per consolidare il proprio potere. L’intenzione di Virgilio nasce dalla pensosità dell’autore, dubbioso circa l’utilità del poema a sanare l’angoscia patita dai suoi contemporanei durante le guerre civili. Non era riflettere sui destini di Roma, sul suo mito e sulla sua storia che avrebbe portato la pace. Eppure egli era amico di Ottaviano, era illuminato — aveva studiato nella scuola epicurea di Napoli — era giustamente orgoglioso della terra di Roma, della sua potenza, del suo compito: parcere subiectis et debellare superbos, risparmiare i vinti e sconfiggere gli arroganti. Ma qualcosa non gli tornava.
Lo aveva già detto: “Felice chi poté conoscere la causa delle cose, e calpestò sotto i suoi piedi tutti i terrori”, chi usa dell’intelligenza per indagare sui fenomeni e vince così la paura, ma “Fortunato anche chi conobbe gli dei agresti”. Questa nostalgia di una ragione illuminata dalla religiosità dei semplici non lo lasciava in pace di fronte all’aver cantato — bene o male egli stesso non lo sapeva — la gloria di Roma.
Se ci fosse qualcuno oggi in Europa, tra i grandi, che avesse questo cuore non rattrappito! Dopo Virgilio, Tacito si assume invece il compito di una critica feroce alle “magnifiche sorti e progressive” dell’Impero. Non teme di dire che valevano di più tra i barbari i buoni costumi che a Roma le buone leggi. Dirlo nella patria del diritto gli è consentito, e non è satira. E’ sarcasmo, ma è anche rimpianto delle libertà repubblicane, è difesa di costumi incorrotti, della famiglia naturale, monogamica, della fedeltà coniugale praticata dai barbari a fronte della corruzione e del libertinaggio dilaganti a Roma.
C’è un legame tra il conformismo di oggi, tra il disimpegno degli slogan planetari, tra le molte distinzioni tra islam pacifista o meno, tra la mancanza di chiarezza sull’importanza del rapporto tra regno e sacerdozio nell’islam moderno e tanta violenza ideologica di ieri, quando solo la purezza dell’antifascismo dava il diritto di parola e di presenza.
Oggi di antifascismo non si parla quasi più, ma non è cessata l’intolleranza. Basta pensare alle polemiche in atto a proposito del convegno sulla famiglia in programma il 17 gennaio a Milano.
Se si difende la libertà di stampa, perché impedire la libertà di parola? Forse l’arroganza altrui fa da schermo a vedere la nostra? Speriamo che non sia del tutto così, e che fatti gravi come quelli di questi giorni a Parigi impegnino l’intelligenza almeno quanto la mano che impugna la matita.