Quando, all’inizio degli anni 70 del secolo scorso, venne pubblicato La farmacia di Platone, Jacques Derrida era già relativamente conosciuto nel mondo filosofico francese. I suoi primi testi avevano destato discussioni anche aspre ed erano stati considerati, tra l’altro, di insormontabile difficoltà. La fama di autore difficile e perfino “oscuro” non ha smesso di circondare l’opera di uno dei più grandi maestri del nostro tempo, e se è vero che le sue opere chiedono impegno e dedizione e non si prestano ad un facile e rapido consumo, è altresì vero che la fatica è sempre ripagata dalla scoperta di percorsi del pensiero inediti, rigorosi e spesso sorprendenti. 



Anche La farmacia di Platone appartiene al novero di quelle opere alle quali si ritorna con immutata attenzione, certi di scoprire aspetti o questioni che le letture precedenti non avevano ancora portato in superficie. Come era già accaduto con altri autori (soprattutto Husserl), Derrida non svolge un’indagine di tipo storico-filosofico sull’opera di Platone, ma cerca — con uno stile che resterà inalterato anche nel proseguimento del suo lavoro — di ascoltare il testo platonico lasciando che risuonino armoniche e timbri non sempre immediatamente distinguibili o, come recita il folgorante incipit di questa sua opera: «Un testo è un testo solo se nasconde al primo sguardo, al primo venuto la legge della sua composizione e la regola del suo gioco». 



Nella Farmacia di Platone, dunque, si tratterà anzitutto di andare alla ricerca di quella “legge” e di quella “regola” che hanno permesso a Platone, ed in particolare al Fedro, che è il dialogo preso in esame, di presentarsi a noi come testo in cui, nella seconda parte, Socrate mostra a Fedro in che modo la “scrittura” debba essere considerata come un derivato secondario e pericoloso rispetto alla parola “viva”, pronunciata da qualcuno che è presente e che può dialogare, rispondere, obiettare e compiere tutte quelle operazioni che le parole depositate su un foglio non possono svolgere. 



L’anima, nell’intimo dialogo con se stessa, è il luogo incontaminato, puro della verità, e la voce è, per così dire, l’uscita della verità al di fuori dell’anima. La scrittura, invece, proprio in virtù della lontananza rispetto all’anima (quando scrivo qualcosa, ciò che scrivo continuerà ad essere presente anche se io non sarò presente e addirittura dopo la mia morte), tradisce la verità perché si mette a rischio di contaminazione con il “fuori”, e dunque essa è virtualmente pericolosa: richiamandosi ad un mito egizio sull’origine della scrittura, Socrate ricorda a Fedro che la scrittura è un pharmakon, parola greca che significa sia “rimedio”, sia “veleno”, ed è proprio a partire da questo duplice significato della parola che si sviluppa la raffinata analisi del filosofo francese.  

La posta in gioco della capillare, vorticosa lettura compiuta da Derrida sul testo di Platone è alta: si tratta, infatti di mostrare in che modo, attraverso l’opposizione tra la parola viva e la parola scritta elaborata dal filosofo ateniese (e, più o meno sotteraneamente presente lunga tutta la storia della filosofia dell’occidente), la filosofia si sia venuta costituendo come discorso che procede per opposizioni (vero/falso, dentro/fuori, razionale/irrazionale, e così via) le quali, a loro, volta, si dispongono sempre secondo un ordine gerarchico che vuole che uno dei due poli sia autentico e l’altro subordinato e spurio. 

Non si tratta, ovviamente, di negare le opposizioni (Derrida, contrariamente a quanto sostenuto dai suoi molti detrattori, non lo ha mai fatto), né di dichiarare che la realtà è solo un gioco di composizione e scomposizione di segni e significati che vorrebbero solo coprire l’insensatezza della storia e dell’esistenza dell’uomo: si tratta, piuttosto, di vegliare sui rischi che si corrono ogni volta che si pretende di chiudere quanto si scopre dentro un sapere che escluda tutto ciò che viene riconosciuto come diverso, come altro.

La lettura di Derrida, oggi più che mai attuale di fronte ai tanti conflitti identitari che scuotono la società, travalica l’ambito accademicamente filosofico per riverberarsi su un pugno di domande che, tra l’altro, accompagneranno le sue numerosissime opere con martellante continuità: che ne è di un discorso, di un’identità, di un sapere, di una cultura che si chiudono nell’arcigna pretesa di un’auto-fondazione e non riconoscono di essere generati e costantemente inquietati da un’alterità che, allora, solo a prezzo di violenze e censure, potrà essere occultata? Che ne è dell’umano che non riconosce di essere compreso in una storia che lo trascende e che non può essere considerata un possesso geloso?


L’articolo anticipa la relazione dell’autore in occasione dell’incontro “La farmacia di Platone”, primo appuntamento (16 gennaio) di un ciclo di cinque letture organizzate da Prologos. Il ciclo ha per titolo “Derrida lettore dei filosofi. L’evento del testo”. Dettagli e date su www.prologos.it