Caro direttore,
propongo di riflettere su una citazione.
“Gli uomini di potere democristiani sono passati dalla ‘fase delle lucciole’ alla ‘fase della scomparsa delle lucciole’ senza accorgersene. (…). Essi si sono illusi che nel loro regime tutto sostanzialmente sarebbe stato uguale: che, per esempio, avrebbero potuto contare in eterno sul Vaticano: senza accorgersi che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, non sapeva più che farsene del Vaticano quale centro di vita contadina, retrograda, povera. Essi si erano illusi di poter contare in eterno su un esercito nazionalista (come appunto i loro predecessori fascisti): e non vedevano che il potere, che essi stessi continuavano a detenere e a gestire, già manovrava per gettare la base di eserciti nuovi in quanto transnazionali, quasi polizie tecnocratiche. E lo stesso si dica per la famiglia, costretta, senza soluzione di continuità dai tempi del fascismo, al risparmio, alla moralità: ora il potere dei consumi imponeva a essa cambiamenti radicali nel senso della modernità, fino ad accettare il divorzio, e ormai, potenzialmente, tutto il resto, senza più limiti (o almeno fino ai limiti consentiti dalla permissività del nuovo potere, peggio che totalitario in quanto violentemente totalizzante)”. Pier Paolo Pasolini, febbraio 1975
Queste parole sanzionavano 40 anni fa un cambio epocale: l’uscita dal fascismo, e dal postfascismo: l’uscita da un’epoca di Italia contadina ad un’Italia consumistica, omologata nelle multinazionali, omologata nel linguaggio che ha fatto fuori i dialetti; insomma in un’Italia che non vede più le lucciole sul far della sera, mentre fino ad allora era comune vederle fin nelle strade della Capitale.
Scomparivano le lucciole e scompariva la civiltà agraria, tradizionale. Le lucciole nelle strade furono sostituite dalle bandiere: nel ’68 e nel ’75 si assisteva a scontri ideologici e a fucine culturali dirompenti, talora assurdamente violenti che originarono morti e dolori orrendi. E le strade si riempivano di slogan, spray, manifesti, bandiere. Le lucciole che riempivano le sere estive al tramonto anche nelle strade delle metropoli cedettero alla moltitudine di bandiere che spuntavano dappertutto, bandiere di varie tendenze e colori, figlie — scriveva Pasolini — di una rivoluzione farlocca fatta dai ricchi figli dei ricchi capitalisti (“Ti accorgerai di aver servito il mondo contro cui con zelo portasti avanti la lotta“, scriveva Pasolini ai giovani pseudorivoluzionari nel 1971).
Ma poi anche le bandiere sono scomparse ed è finito anche il mondo industriale. Ecco il punto: oggi viviamo nella società successiva a quella industriale, nella postmodernità, quella in cui prevale l’individualismo, l’utilitarismo e il soggettivismo. Siamo passati dal collettivismo sociale di una società che subiva i “miti eterni della patria e dell’eroe”, ad una cultura contestatrice di facciata fatta di slogan e bandiere, e infine a quella che fonda tutto sulla reattività, sul parere personale. Che alla fine pare dare libertà e invece dà solitudine; pare dare scelta e invece dà conformismo; pare dare potere alle decisioni e invece rende l’uomo e la donna isolati, deboli e inermi.
Il postmoderno è l’uomo che non crede neanche nel materialismo scientista, e crede che il proprio parere superi anche l’oggettività medica, decide se un trattamento va o non va fatto non su basi tecnicamente misurate, ma sul parere personale: che il tabacco o la cocaina facciano male lo dice la scienza ma “io posso decidere che sono un valore se liberamente lo scelgo e decido in autonomia”. Già, perché la bandiera della postmodernità è l’autonomia, l’ideale è l’uomo e la donna staccati da legami morali o familiari (che non significa “immorali” o “antifamiliari”, ma semplicemente che ne sono staccati, scollegati); e che hanno come unico riferimento la autodeterminazione, la decisione presa in solitudine. Vedi tante novità in campo etico, ma anche la perdita di tradizione, di appartenenza e di socialità, che porta la gente a staccarsi dall’impegno sociale e a non saper come difendere la propria identità ed esistenza di popolo.
Ecco perché l’occidente postmoderno che ha tagliato le sue radici col passato, abbandonandosi a centri di potere e cultura sovranazionali che sembrano esser neutrali ma hanno una loro ferrea etica (diversa da quella delle antiche nazioni), si trova a disagio quando viene attaccato da culture nuove, migratorie e fondamentaliste. Lo abbiamo visto in questi giorni e questi anni: si protesta allora perché si subiscono degli attacchi, ma quale risposta culturale sa dare questo occidente orfano di una storia, privato di radici e quindi senza ali per volare e mani invogliate a prendere vanghe per costruire?
Sono scomparse le lucciole della società contadina e sono poi scomparse le bandiere della società ideologica figlia del mondo industriale; restiamo noi, che viviamo nella società della solitudine. I nostri ospedali e le nostre scuole sono diventati delle aziende basate sul budget invece di far sentire insegnamento e cura come una missione; la politica è sotto accusa per l’individualismo e la scarsa lungimiranza sociale. E’ una solitudine ben mascherata dalla vernice dell’autodeterminazione e della libertà come rispetto asettico. Perché il postmodernismo — l’individualismo, l’utilitarismo — ci vuole tutti sazi e soli: non riesce nel primo intento (vedi le crisi economiche ineluttabilmente giunte), ma riesce bene nel secondo.