Caro direttore,
siamo giunti al termine di una settimana in cui chiunque ci ha raccontato il suo pensiero in merito ai fatti di Parigi: tantissime persone — più o meno note — hanno avvertito il bisogno di fornirci una loro lettura su quanto era accaduto e su come le cose andassero opportunamente analizzate. Devo ammettere che anche io mi sono trovato questo desiderio addosso e, quando ho visto che avrei potuto anche produrre un bel po’ di articoli e di post in merito, mi sono fermato e ho voluto vedere che cosa ci fosse al fondo di una tale smania. Tornando a scuola mi è capitato di avere numerosissimi dialoghi con gli oltre trecento studenti che ogni settimana affollano le mie mattinate e mi sono ritrovato di fronte gli stessi bisogni e la stessa confusione che tanti amici, commentatori e docenti, hanno testimoniato con passione in questi giorni sul sussidiario.



Eppure, in tutto questo, qualcosa non mi tornava, qualcosa stonava: davanti a me vedevo tutto, capivo tutto, ma quello che vedevo e che capivo non era sufficiente a rendermi contento, lieto e libero, dentro la realtà. In ogni incontro, in ogni conversazione, in ogni capannello, c’era sempre da difendere qualcosa, qualcuno, e avevo la fortissima preoccupazione che tutti interpretassero gli eventi come li interpretavo io. C’era il collega che doveva imparare che la libertà di espressione non si tocca, c’era quello a cui occorreva spiegare che la libertà di espressione ha — però — sempre dei limiti di decenza e non deve mai diventare aperta provocazione, c’era l’amico cui ricordare che “je suis Charlie” e c’era quello a cui, invece, era necessario rammentare che io non sono proprio “Charlie“. 



Senza contare tutti quelli a cui mi sentivo in dovere di ricordare che la libertà di espressione vale per tutti, anche per chi difende la famiglia fondata sul matrimonio, e non solo per la categoria dei vignettisti che — in questo momento — “è di moda”. Insomma, se fossimo sinceri, dovremmo ammettere che moltissimi di noi hanno passato una settimana a chiosare, a sottolineare, a rimarcare, a contraddire, e — al termine di tutto questo tempo — non è in definitiva cambiato pressoché niente. 

Vede direttore, io in questi giorni mi sono reso conto che in alcuni momenti quello che è successo in Francia non mi interessava molto, ma mi serviva in funzione di quello che potevo dire o dimostrare in riferimento a ciò che era avvenuto. Capire questo, scoprire questa mia ultima “crudeltà”, mi ha aiutato tantissimo a rintracciare lo stesso atteggiamento nei confronti della stragrande maggioranza dei fattori che compongono la mia vita. Le cose, lo ammetto, spesso non mi interessano per quello che possono insegnarmi, ma per quello che io ne posso fare. 



La vita, in ultima istanza, non mi sposta quasi di un millimetro e mi ritrovo — qualunque cosa succeda — ad essere sempre identico a me stesso, pronto a giustificare tutto all’interno del mio perfetto schema di pensiero. 

Una scoperta del genere, però, ne porta di conseguenza un’altra ancora più vera e ancora più drammatica: più io la realtà tento di renderla ideologicamente comprensibile, più io tendo a tacere il Mistero che la abita. Sono dieci giorni che parliamo di Parigi e non sono tanti quelli che hanno avuto il coraggio di dire che tutto si è in definitiva giocato nel Mistero della libertà di uomini che hanno deciso di esprimersi provocando e di altri uomini che hanno risposto a tale provocazione uccidendo.

Il dramma dell’Io, del Mistero che abita ciascuno di noi, è stato fatto fuori dalle nostre spiegazioni poetiche, politiche, religiose e sociologiche. Le stesse spiegazioni con le quali noi facciamo fuori tutto: dagli amici alla nuora, dal collega di lavoro al professore, dal dolore alla speranza. Noi continuiamo a spiegare invece di stare zitti e, per questo, il Mistero mai ci raggiunge, mai ci interroga, mai ci “sfonda”. Così Dio lo dobbiamo cercare nelle cose più strane, dalla compagnia che creiamo noi ai gesti che stabiliamo noi, dalle pratiche religiose che ci emozionano di più alle idee che ci affascinano di più. 

Si può ben capire, caro direttore, che una religiosità vissuta così, un cristianesimo vissuto così, ha una data di scadenza: tende — infatti — dapprima a coagularsi in gruppetti, in circolini in cui il nostro pensiero è condiviso, e poi — al passare della tempesta — a inaridirsi fino a morire e a perdere di significato in attesa del prossimo sussulto, del prossimo “nemico”, del prossimo infarto che lo rivitalizzi. Io credo che, al fondo, tutto questo sia davvero il più insidioso dei retaggi del novecento occidentale: l’illusione che lo strumento più adeguato per affrontare la realtà sia il pensiero astratto. Questo lo capisco con una certa drammaticità perché provengo da una generazione che il novecento — di fatto — non lo ha visto. Quando i miei amici ed io abbiamo cominciato a ragionare e a interrogarci sulla realtà il comunismo non c’era già più, Giovanni Paolo II era un signore anziano e commovente e l’Italia era divisa tra Prodi e Berlusconi. I nostri padri hanno avuto un sacco di difficoltà con Dio, la nostra generazione, invece, ha un sacco di difficoltà con l’Io. Per questo lo strumento più adeguato per incontrare la realtà non è il pensiero, ma l’incarnazione, una storia piccola e fragile come la nostra, che incontra la Storia e — dentro questo incontro — scopre, comunica e riconquista le verità dei nostri padri. 

In definitiva è per questo che loro non riescono a capirci, che non riescono ad educarci fino in fondo e a trasmetterci la fede: sono così preoccupati che ciascuno di noi arrivi a dire la parola Dio secondo tutti i canoni della “loro” esperienza, che si dimenticano che molti di noi hanno paura, si sentono perfino in colpa, di essere o di esprimere un proprio Io. Paradossalmente solo uomini come Escrivà, Giussani, Kiko, la Lubich o Ratzinger, Bergoglio e Wojtyla hanno avuto questa attenzione e questa carità nei nostri confronti, perché si sono resi conto che ciò che del cristianesimo rischiava di andare perduto non erano i valori o le idee, ma il dogma stesso dell’incarnazione. 

Vede direttore, ai miei studenti — e qui finisco — non interessa tanto quello che io penso di un certo tema e quando gli interessa è perché, in definitiva, anche loro su quel tema hanno già intuito o presagito qualcosa. Ai miei studenti quello che interessa è come io guardo, come io sento, come io vivo la mia vita. Ciascuno di loro è educato solo da un gesto deciso e concreto che costituisce una sorta di ultimo richiamo alla verità del loro cuore. Per questo quello che ho imparato in questi giorni è che non c’è niente di più utile — per capire qualcosa del terrorismo e di me stesso — che vivere con serietà il posto che Dio mi ha assegnato. Senza credermi il Papa, senza credermi il futuro presidente della Repubblica, senza dover per forza spiegare o giustificare tutto, ma avendo la “banale umiltà” di arrendermi al fatto che — in quel particolare che mi è toccato di vivere — si gioca la stessa libertà che si è giocato un uomo lo scorso 7 gennaio suonando al campanello (per altro sbagliato) dello Charlie Hebdo.