«L’errore è tutto nel non fatto/ Nella diffidenza che tentenna». Così Ezra Pound chiudeva settant’anni fa il Canto LXXXI, tra i suoi più noti, e così sigillava l’esperienza traumatica del secondo conflitto mondiale, del suo arresto e dell’umiliazione del manicomio. Umiliazione estrema, quella del Saint Elizabeth di Washington, cui il governo americano lo costrinse dal 1945 al 1958 per evitargli di affrontare la corte marziale, con un atto magnanimo all’apparenza, ma che svela invece la cattiva coscienza dei suoi accusatori, ai quali era molto più comodo confinare Pound nella figura del poeta pazzo che non dare infine risposta alle domande scomode che egli da anni ripeteva loro.
È lo strumento tipico del potere (oui, je suis Charlie, ou peut-être non) ridicolizzare, circoscrivere, monumentalizzare: assumere insomma qualunque soluzione che sleghi la scomodità del vero dalla vita e la realtà dell’oggetto dalla sua rappresentazione. Perché un poeta pazzo si può persino ammirarlo, finché sta al suo posto di buffone di corte: ma se ci assumiamo il rischio di prenderlo sul serio, che la gente lo prenda sul serio, se alle sue domande si deve dare risposta…
«L’errore è tutto nel non fatto», allora, e così sia. Troppa vita e troppa morte, per Pound, troppo tutto: «Human kind cannot bear very much reality»; lo sa l’amico T.S. Eliot che conia il motto, lo scopre nella carne e nel fiato scorciato il vecchio Ez, che a furia di giocare al matto ingabbiato comincia sempre più a infingersi in un suo mondo privato, a entrare in quel «tempus tacendi» che aveva preconizzato decenni prima, all’inizio del Canto XXXI. Così, dopo la stesura furiosa dei Rock-Drill e dei Troni, cioè dei canti dall’LXXXVI al CIX, Pound cade in un silenzio nebuloso, illuminato a tratti da sprazzi di lucidità intermittente e parallela.
Ma la vita non si arresta per decreto, né il sangue, quando è vivo e caldo, sa smettere di pulsare per quieto vivere. Ed è così che tra il 1961 e il 1962 — spronato anche dal giovane poeta Donald Hall che si entusiasma per i suoi appunti inediti — il vecchio Ez esce dal regno delle ombre, o vi affonda del tutto forse, imboccando l’ultimo tratto del suo periplo e dando corpo, benché in forma mai pienamente compiuta, a quel Paradiso che da lunghi anni aveva in mente come culmine dei Cantos. Un paradiso in cui ritorna l’incubo della guerra e del male, lo scandalo paolino del bene voluto e insieme negato: «Un uomo che cerca il bene/ facendo il male./ In meine Heimat/ dove i morti camminavano/ e i vivi erano di cartapesta» (Canto “Dal CXV”, p. 1480).
Un paradiso in cui finalmente, tuttavia, la directio voluntatis da sempre ammirata e perseguita assume una sfumatura meno confuciana e più cattolica, pietosa, anzitutto verso sé: «Confessare l’errore e non perdere il giusto:/ Carità, talvolta l’ebbi,/ Non riesco a farla scorrere. /Un po’ di luce, come un barlume,/ per ricondurci allo splendore» (Canto CXVI, p. 1486).
La luce e l’amore, ecco cosa resta, o meglio: il desiderio della luce e dell’amore, che più si fanno fondi, più riescono indefinibili se non in forma di domanda e attesa: «M’amour, m’amour/ cos’è che amo e/ dove sei?/ Che ho perso il mio centro/ a combattere il mondo./ I sogni cozzano/ e si frantumano –/ e quel che ho cercato di fare è un paradiso/ terrestre» (Appunti per il CXVII et seq., p. 1490). Ed ecco allora che nei frammenti conclusivi, cui ancora i filologi non sanno dare un ordine convinto, questo desiderio di luce e d’amore, la domanda di perdono e di pace, risorgono imponenti:
Ho provato a scrivere Paradiso
Non muoverti,
Lascia che il vento parli
Questo è Paradiso
Che possano gli dei perdonare quel
che ho fatto
Che quelli che ho amato provino a perdonare
quel che ho fatto
(Appunti per il CXVII et seq., p. 1492)
E non è forse un caso che a questi frammenti incompiuti non si riesca a dare un ordine preciso, ché forse non c’è, ché forse vanno insieme in un sol punto, come la vita, come quegli istanti di verità dati e subito perduti in cui si svela il senso ultimo, l’attesa ultima di tutte le brame e di tutti i desideri: «Uomini siate, non distruttori» (Appunti per il CXVII et seq., p. 1494).
(I numeri di pagina sono quelli relativi al testo originale in Ezra Pound, Cantos, Mondadori, Milano 1985. Le traduzioni sono a cura dell’autore)