Il violoncellista Giuseppe Mastorna si ritrova perso in una città dai contorni sfuocati, come in un sogno. Tra la folla incurante, emerge un uomo che con gentilezza si china su di lui e si offre di accompagnarlo alla stazione più vicina. 

Federico Fellini nello scrivere la sceneggiatura del film a cui più era affezionato e che mai riuscì a terminare — Il viaggio di G. Mastorna —, si sofferma sulla figura di quest’angelico accompagnatore, e lo descrive così: “Sul volto un sorriso sospeso come chi attende un segno, l’illuminarsi di uno sguardo”.  



La citazione del maestro, così lo chiamavano in tanti, ci porta a riflettere: è davvero possibile attendersi qualcosa dall’altro? Sorridere di fronte a un perfetto sconosciuto? A novantacinque anni dalla sua nascita, il quesito del regista riminese sembra intervenire con piena attualità nelle vicende giornalistiche di questi giorni. 



Pochi sanno che Federico Fellini, prima di diventare il grande autore di cinema che tutti conoscono, ha lavorato in un giornale. Era infatti un caricaturista del Marc’Aurelio, il più famoso settimanale satirico del tempo. 

Disegno, diceva, perché è il modo che ho di conoscere chi ho davanti, fissare qualcosa e avviare un rapporto. Personaggi divertenti, dal sedere enorme e il naso a patata, presi dal quotidiano e irrisi con dolcezza e simpatia. Non conosco caricature di Fellini dal tono malevolo; persino i nazisti erano descritti dal suo tratto di penna come pagliacci di un circo di cui tutto il mondo è partecipe. 

Ma quest’attenzione all’altro accompagnò il riminese anche negli anni da regista: erano più gli schizzi che faceva dei personaggi che i fogli per la sceneggiatura. Migliaia di facce, piene di espressione, di riso e paura, eppure anche una sola faccia, la sua. Attraverso quei volti, l’autore maturava una nuova scoperta di se stesso, la possibilità di guardarsi sotto altri occhi. 

Per questo i suoi film son stati definiti da qualcuno come un presepe immaginario in cui non c’erano veri protagonisti, ma solo lui, con il suo animo irrequieto, al centro dell’opera. Faccio film, disse una volta in un intervista, perché questo è il modo più semplice che ho per conoscere me stesso

Il lavoro diventava allora anch’esso possibilità nuova di scoperta — magnifica intuizione che dovrebbe gettare luce sui profili bui dei nostri nuovi lavoratori —, niente valeva la pena di essere fatto e vissuto se alla volta di quello non c’era la speranza piccola di poter svelare un po’ di più il suo nome.  

Guardare alle cose che succedono con gli occhi aperti e le braccia spalancate, come un bambino verso la gonna della mamma, pieni di fiducia, sapendo che ogni cosa è davvero messa lì per lui. 

Nessuno si potrà dimenticare la miracolosa scena del Matto nel lungometraggio La Strada quando, rivolgendosi alla buffa Gelsomina, l’uomo le rivela che «tutto quello che c’è a questo mondo serve a qualcosa […] anche tu con la tua testa da carciofo».  

Fellini non si aspettava niente di meno dall’altro — come i suoi film rendono evidente testimonianza — che fosse anche uno sconosciuto, una ragazza con qualche rotella in meno o una prostituta… per ognuno valeva la pena rivolgere un sorriso e avviare un rapporto.