Devo alla copiosa biografia di García Márquez, scritta dal raffinato e arguto Gerald Martin, un’osservazione molto puntuale. Martin conferma uno dei luoghi comuni della critica sul grande scrittore colombiano: l’influsso di Franz Kafka. Successe alla fine degli anni 40 del secolo scorso. García Márquez abitava in una pensione da quattro soldi, fingeva di studiare all’università, e divorava libri in omaggio alla sua invincibile vocazione letteraria.
Soffriva d’insonnia, e gli amici gli prestavano dei libri che lo aiutavano a conciliare il sonno. O, almeno, gli facevano passare la nottata. Una di quelle notti, qualcuno gli portò un libro appena stampato dalla casa editrice “Losada” e tradotto da Jorge Luis Borges. Il libro si chiamava La metamorfosi e il suo autore, Franz Kafka. Invece di dormire, García Márquez passò la notte in bianco, a leggere e rileggere il capolavoro dello scrittore praghese. “È così come si deve scrivere!” esclamò. E dopo: “È così come raccontava le storie mia nonna!”. E cioè, con la faccia di legno. Raccontare le cose più inverosimili con lo stesso tono con cui si raccontano i fatti quotidiani.
Gregor Samsa si svegliò un giorno convertito in uno scarafaggio, e ne prese atto senza scomporsi. Non si scompose la sua famiglia. Anche i protagonisti dei romanzi di García Márquez assistono a fenomeni sovrannaturali con la familiarità di chi beve il caffè al mattino: Maurizio Babilonia gira con un’aureola di farfalle gialle in testa, padre Nicanor lievita ogni volta che beve una tazza di cioccolato, Remedios la Bella ascende in cielo in corpo e anima trascinata de un lenzuolo che stava stendendo.
García Márquez aggiunge, a questa tecnica kafkiana, il suo contrario: le cose quotidiane sembrano fatti straordinari: il colonnello Aureliano Buendìa, da bambino, conosce il ghiaccio, e gli sembra qualcosa di fantastico; i sassi del fiume di Macondo paiono uova preistoriche; costruire una gabbia per uccelli diventa un’impresa meravigliosa.
Qui interviene Martin. Secondo lui, la somiglianza fra Kafka e García Márquez risiede, anche, in un’altra circostanza, diversa dalla tecnica del fantastico. La somiglianza risiede nel rapporto col padre. Conosciamo bene le relazioni conflittuali di Kafka con il proprio progenitore. Meno bene quelle di García Márquez con don Eligio García, il telegrafista transumante che lo fece venire al mondo e che mai gli concesse uno sguardo di riconoscimento. Don Eligio era un uomo votato al fallimento. Non solo fece il telegrafista, ma provò fortuna con le farmacie. Ai suoi insuccessi come farmacista contrapponeva un successo con le donne. Un po’ poeta, un po’ ballerino, un po’ bohèmien, il signor Eligio non ebbe molto tempo da dedicare ai figli e ai figliastri. Tanto che la vera figura paterna per García Márquez fu il nonno materno, il colonnello Nicolás Márquez.
Nonostante ciò, tutta la vita, racconta Martin, Gabriel García Márquez tentò di ottenere l’approvazione del padre. Ma il signor Eligio mai gliela concesse. Al punto che, quando al figlio fu concesso il Premio Nobel, don Eligio commentò ai giornalisti esterrefatti: “E certo, glielo dovevano dare, visto che è grande amico di Mitterrand!”.
Altrettanto assente nella vita e altrettanto presente nell’opera, il padre di José María Arguedas, il grande romanziere peruviano autore de I fiumi profondi, lasciò un’impronta incancellabile nell’anima del figlio. Era una sorta di commesso viaggiatore e, rimasto vedovo molto presto, si trascinò dietro un bambino che vedeva raramente. Spesso, lo lasciava “dimenticato” in qualche fattoria delle Ande peruviane, e il piccolo José María crebbe in stretto contatto con la servitù indigena. Al punto che la sua lingua materna fu il quechua, l’idioma degli Incas, e imparò da vicino leggende, usi e costumi della popolazione più umili del Perù. Dobbiamo a questa trascuratezza paterna uno dei monumenti letterari dell’America Latina, quei “fiumi profondi” che mandano una musica segreta dal fondo dei burroni andini.
All’incontrario, un padre molto presente è quello di Neftalì Reyes, in arte Pablo Neruda. Massiccio ferroviere, uomo del popolo poco amante dei libri e molto della natura, fece crescere il figlio in un ambiente rude e primigenio, negli esuberanti boschi del Sud del Chile, dove gli alberi toccano il cielo e gli animali proliferano più degli esseri umani. Ripetute volte, Neruda tornerà, nei suoi versi, a cantare la natura cilena, in ciò che ha di profondo, tellurico e commovente. E ripetute volte tornerà a cantare la figura del padre, forte, possente, concreto.
Ma forse il padre più importante in tutta la letteratura ispanoamericana non è quello distratto di García Márquez, quello nomade di Arguedas, quello imponente di Neruda, quello assente di Vargas Llosa, quello influente di Borges, quello colonizzatore dell’Inca Garcilaso della Vega. Forse il padre più importante è un padre fittizio, il padre di Juan Preciados, protagonista del capolavoro di Juan Rulfo, Pedro Páramo. «Sono venuto a Comala perché mi dissero che qui viveva mio padre, tale Pedro Páramo. Mia madre me lo disse. E io le promisi che sarei venuto a trovarlo non appena lei moriva. […] “Non chiedergli niente. Esigi ciò che è nostro. Ciò che aveva l’obbligo di darmi e mai mi diede… L’oblio in cui ci tenne, figlio mio, riscuotilo caro”». La ricerca del padre crea un capolavoro in meno di cento pagine. Ed è un ritratto intimo, intenso e notevole del Messico profondo.