Reduce dal successo di Venise à fleur d’eau (1954), il primo libro fotografico di un autore italiano, il giovane e irrequieto Fulvio Roiter freme alla ricerca di nuove sfide. Il lavoro su Venezia ha riscosso numerosi consensi grazie alla struttura narrativa puntellata di citazioni letterarie, all’innovativa veste grafica e, non da ultimo, dai maestosi bianchi e neri delle immagini tuttavia ancora segnate da veniali peccati di gioventù, fra cui piccoli eccessi di calligrafismo e oleografia che non inficiano il valore dell’opera. Roiter si nutre della passione veemente dell’autodidatta ma allo stesso tempo del fertile humus culturale riunitosi attorno al gruppo veneziano de La Gondola, della sapienza tecnica dello storico laboratorio Foto Record fondato da esuli armeni a Calle dei Fabbri, della biblioteca di Paolo Monti presso cui entra in contatto con gli esiti più aggiornati della ricerca internazionale: Doisneau, Cartier-Bresson, Bischof, Klein.



L’occasione di sviluppare ad un nuovo livello un linguaggio aperto alla contaminazione fra realtà e sperimentazione, fra reportage e avanguardia, non tarda ad arrivare: la Guilde du Livre di Losanna, l’editore svizzero che aveva pubblicato con successo l’opera su Venezia, propone a Roiter di cimentarsi con un progetto sull’Umbria, ispirato ai Fioretti di San Francesco e al Cantico, sulla scia del recente Francesco giullare di Dio di Rossellini. Dal reportage fotografico, secondo le indicazioni dell’editore, dovranno emergere i motivi francescani essenziali, riassumibili in una poetica votata alla ricerca della bellezza nella semplicità delle cose. 



Lo sguardo di Roiter di fronte ad un compito così impegnativo ma allo stesso tempo stimolante, si asciuga ed affina. Evitando il rischio di romanzare le vicende storiche intessute nei luoghi stessi (Norcia, Spello, Narni, Spoleto, Todi, Foligno oltre ovviamente ad Assisi e Gubbio) e di confezionare una melensa agiografia ad uso e consumo di un pubblico pre-confezionato, l’autore indaga sulla realtà più autentica del contesto esplorato. Si sofferma sulle difficoltà di lavori antichi che sopravvivono ai secoli, sulle asperità di un territorio che dal Medioevo agli anni 50 del XX secolo non sono cambiate poi di molto, consentendo alla natura di dominare incontrastata e sorprendente nel bianco abbacinante dell’inverno umbro. 



Pastori e bisacce, asini e stracci lavati dalle donne al fiume, scalette appoggiate ad ulivi imbiancati, piccole croci e lapidi isolate nel nulla: soggetti di una semplicità disarmante che non scadono mai nel bozzettismo agreste ma si elevano, nello sguardo di Roiter, a simboli senza e fuori dal tempo, miniature dell’umano e della meraviglia dinanzi all’essenziale bellezza del creato. 

Padrone assoluto della tecnica fotografica, l’autore declina la narrazione per immagini in una dimensione astratta grazie all’intenso trattamento tonale riservato al bianco e nero e ricorrendo a più riprese ad un raffinato citazionismo (gli still life di Giuseppe Cavalli, il senso grafico e la leggerezza di Werner Bischof) che ne denota la consapevolezza precocemente raggiunta nell’uso del medium. 

Il paesaggio umbro è irriconoscibile, così come sono del tutto assenti riferimenti espliciti a luoghi canonici e tracce del poverello d’Assisi. Eppure la consonanza emotiva, la tensione spirituale sono immediatamente percettibili come se l’eco del messaggio francescano avesse permeato di sé l’essenza stessa di questa terra, come una vibrazione sottile che non smette di perpetuarsi nei gesti degli abitanti, nei cristalli di neve, nelle pozzanghere e nelle foglie.

Roiter nel seguito della sua carriera percorrerà rotte esotiche, dal Belgio al Libano, dal Portogallo al Messico, esercitando e mettendo alla prova la propria peculiare sensibilità e passando dal bianco e nero al colore come spesso capita a chi incontra l’Africa nel suo percorso artistico e di vita. Ma sempre rimarrà in lui una cifra stilistica forgiata in quel lontano inverno del 1954, trascorso nel cuore dell’Umbria ad inseguire radi fili d’erba che emergono dal manto nevoso: un’ideale di bellezza puro, incontaminato e senza tempo.