A metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, quando Gadda, Pratolini, Pasolini, Bassani, Calvino pubblicano alcune delle loro opere più importanti, il ventenne Fulvio Tomizza comincia a scrivere Materada, che lo impegnerà per cinque anni. Si è appena concluso un capitolo della questione istriana con il Memorandum di Londra che taglia l’Istria in due parti, la zona A all’Italia, la B alla Jugoslavia. È un nuovo dramma dopo quello del 1947; lasciare la terra istriana, abbandonare il luogo della nascita: Tomizza vi era nato nel ’35. In lui è chiara la consapevolezza che “la gente di confine” è per ragioni oggettive diversa da qualsiasi altra, perché trascinata dagli eventi in scelte ardue, per certi aspetti impossibili. 



Materada — il primo romanzo di quella che sarebbe poi stata la Trilogia Istriana con La ragazza di Petrovia (1963) e Il bosco di acacie (1966) — è la storia di quell’esodo, di quella stagione di angosce e dubbi che hanno accompagnato la decisione di andare via. L’Istria, terra di veneziani, slavi, croati, vede i suoi abitanti combattuti e lacerati da decisioni politiche che sembrano incomprensibili eppure inevitabili; è possibile definire una identità degli istriani? Già più di cinquant’anni fa il tema del meticciato si presentava prepotente e apparentemente insolubile. 



In Materada si racconta una saga familiare come tante (qualcuno ha pensato a Tozzi, ma forse è più presente ciò che diceva Calvino del primo dopoguerra: una stagione “con tante storie da raccontare”) iniziata da un pasticcio ereditario, ma la contesa, che potrebbe restare nei confini della famiglia, si scontra con i regolamenti dettati dalla politica; la questione di famiglia straripa dai suoi  argini e assume aspetti pericolosi per tutti, sia per il vecchio zio croato che per i nipoti slavi. Tomizza scriverà per altri quarant’anni romanzi, testi teatrali, racconti anche per bambini, ma in lui rimarrà sempre l’impronta, quasi il risentimento per le umiliazioni patite da chi, come lui, ha vissuto il dramma dello sradicamento. 



Ho un ricordo preciso di quando da bambino — d’estate mio padre ci portava in  giro per l’Europa — attraversando il confine, mi prendeva una sensazione particolare. Diversità nella somiglianza, il confine; una continuità o una barriera? Ora la domanda si rivolge al fatto letterario: qual è l’identità di uno scrittore “di confine”? Scrivere implica — credo — una appartenenza: forse Tomizza è andato alla ricerca di un’appartenenza, di una origine, consapevole di essere cittadino di una polis inesistente. Le sue opere sono in certo modo un gesto redentivo per tutti coloro che avevano subito una terribile mortificazione e non dovevano subirne un’altra, quella dell’oblio.

In questo percorso non ha mai usato toni odiosi, accuse, rivendicazioni. I villaggi svuotati, le terre incolte, i camini senza più fumo, le chiese vuote: queste sono le immagini di molti suoi racconti, ma la desolazione non sembra mai scivolare in un annientamento; “accettare e adeguarsi sono le regole del gioco, altrimenti si resta fuori”. Tomizza vince il premio Campiello nel 1965 e il Viareggio nel 1969 con L’albero dei sogni; all’epoca considerata la sua opera migliore, è la storia (per molti aspetti autobiografica) di un giovane per un po’ di tempo studente in seminario, metà veneto e metà slavo che usa due lingue e vaga tra due mentalità diverse, e non può non chiedersi “In nome di Dio, chi ero?”. In questo romanzo si sviluppa un filone tematico, quello del rapporto tra padre e figlio, che diventa un’altra costante di quella ricerca di identità di cui si parlava. 

Ormai cittadino italiano perché vive a Trieste, pubblica nel ’74 Dove tornare, una lunga lettera a un’amica di Praga in cui rivive nel popolo ceco la sua stessa esperienza di apolide. Nel ’77 esce La miglior vita che vince lo Strega. È la storia delle tante storie di una comunità istriana raccolta attorno alla parrocchia: chi racconta è il sacrestano che vede passare sette parroci diversi in cinquant’anni di fedele servizio; egli è il ponte tra più generazioni, capace di far permanere il passato,  di scrivere la storia con la cronaca minuta di ogni giorno, di additare la necessità di un significato per l’esistenza perché ci possa essere un futuro. Un affresco lucido e oggettivo del mondo istriano durante i decenni del Novecento; un romanzo storico, da molti accostato a quello di Manzoni. Si potrebbe allora sostenere che la polis sconosciuta, quella identità ricercata, possa trovarsi nella permanenza della memoria. 

Ne L’amicizia (1980) lo scrittore mostra che il significato del vivere non consiste nell’omogeneità dello stato sociale né nella vicinanza ideologica, e neppure nell’identità religiosa, bensì nella  capacità di condivisione della condizione umana. Vivendo insieme e rispondendo alle istanze del cuore si possono integrare le culture. È quindi il silenzio su Tomizza veramente “negligente”, come sostiene in Cartevive la docente di italianistica a Oxford Marianna Deganutti. C’è qualcuno che ha il coraggio di riproporre Tomizza ai giovani lettori? Probabilmente le discussioni sul presente meticciato troverebbero utili approdi.