Durante il recente viaggio del papa a Cuba e negli Stati Uniti è risuonato più volte l’appello alla libertà e in particolare a quel fondamento e culmine di ogni libertà che è la libertà religiosa. Libertà religiosa per ogni uomo e quindi anche per i cristiani, perché possano essere pienamente se stessi e testimoniare la loro fede nello spazio pubblico.
Dal punto di vista cristiano questo è sempre stato il punto cruciale nel rapporto tra chiesa e strutture politiche e il primo criterio con cui è sempre stata giudicata l’azione dei governanti. Può essere utile ricordare, in proposito, un episodio della storia dei primi secoli cristiani. Quando salì al trono l’imperatore Giuliano (361), potevano esserci diversi motivi per guardare con favore il nuovo sovrano: era un uomo colto, intelligente e benintenzionato, ed era stato capace di presentarsi, attraverso una copiosa produzione letteraria, come un principe illuminato, moralmente superiore e ben preparato all’arte di governo. La sua fiducia nei “buoni studi” non era inferiore a quella di un odierno tecnocrate: nel Misopogon, un discorso di risposta alle critiche che gli venivano fatte dalla popolazione (in buona parte cristiana) di Antiochia, egli confessò il suo stupore per non essere riuscito a conquistare gli antiochieni: «eppure, ne sono persuaso, nessuno dei miei coetanei ha letto più libri di me!».
Certo, era pagano, anzi per la precisione era un ex cristiano (se vogliamo, era il primo personaggio post-cristiano della storia, il che spiega perché oggi goda di tanta simpatia in vasti settori della cultura contemporanea), ma dopotutto la sua ascesa al trono poteva essere considerata, in una certa chiave di lettura provvidenziale della storia, come il mezzo con cui Dio aveva salvato la chiesa da un pericolo mortale: quello costituito, paradossalmente, dalla politica religiosa di un imperatore “cristianissimo” come Costanzo II. Questi, infatti, deciso a ridare ad ogni costo unità alla chiesa lacerata dalla controversia ariana, aveva imposto con la forza ai vescovi di tutto l’impero una formula trinitaria di compromesso, che era stata ratificata dai concili di Rimini e di Seleucia nel 359 e poi a Costantinopoli nel 360.
Anche il papa Liberio si era piegato all’imposizione imperiale e i pochi vescovi rimasti fedeli al credo di Nicea, tra cui Atanasio, erano tutti in esilio. Sotto un certo profilo, quello fu il momento più brutto di tutta la bimillenaria storia del cristianesimo, perché ad essere messa in discussione non fu la coerenza morale o l’assetto organizzativo della chiesa, ma la stessa definizione del dogma. Non importa quanto, in fin dei conti, la dottrina imposta da Costanzo avesse di ariano: il punto è che, per la prima volta, era il potere politico a determinare il contenuto della fede.
Da questa trappola mortale, di nuovo paradossalmente, fu l’imperatore “apostata” a salvare, suo malgrado, la chiesa. Giuliano, infatti, tra le prime misure di governo, prese la decisione di revocare tutte le condanne all’esilio comminate da Costanzo ai vescovi niceni e questo permise loro di ritornare in campo, riaprendo, di fatto, una partita che si sarebbe conclusa solo venti anni dopo (e con tutti i guadagni di una grande maturazione teologica), nel secondo concilio ecumenico, quello di Costantinopoli del 381: il credo che recitiamo ogni domenica alla messa è il frutto prezioso di tutto quel travaglio. Naturalmente Giuliano non agì per amore dei cristiani, anzi, stando allo storico pagano Ammiano Marcellino, la sua intenzione era di fomentare la discordia nella chiesa perché sapeva che «non ci sono bestie feroci così nemiche degli uomini come lo sono molti cristiani tra di loro», però di fatto mise fine alla soffocante stretta di Costanzo.
Almeno nei primi tempi, inoltre, la sua non si può neppure considerare, in senso stretto, una politica di persecuzione cruenta dei cristiani. Egli puntava piuttosto a emarginarli dallo spazio politico (esemplare, in questo senso, la sua legge scolastica). Perché allora il giudizio cristiano su di lui è stato di assoluta condanna? Si trattò forse di una reazione alla perdita dei privilegi che gli imperatori cristiani avevano cominciato ad assicurare, in misura crescente, alla chiesa? E l’asserita superiorità morale del sovrano, oltre che la sua competenza tecnica, non contano nulla nella valutazione dell’esperienza giulianea da parte cristiana?
C’è, a questo proposito, un passo illuminante nella seconda orazione contro Giuliano scritta, poco dopo la sua morte, da Gregorio Nazianzeno. Riferendosi al fatto che nel sopra citato Misopogon l’imperatore si era vantato del proprio stile di vita ascetico come prova della sua eccellenza morale e politica, Gregorio senza tanti complimenti ribatte: «In quel discorso tu ti gonfi di orgoglio per la semplicità del tuo regime di vita e perché non ti è mai capitato di fare indigestione a causa dell’ingordigia, come se dicessi qualcosa di straordinario, ma volentieri sorvoli sul fatto che hai dato la caccia ai cristiani così crudelmente e hai fatto perire un popolo tanto grande e santo! Per altro, se un singolo uomo ha fatto indigestione o lascia andare dei rutti, che danno ne deriva all’interesse pubblico? Ma una volta messa in moto una così grande persecuzione e creata con le innovazioni una tale confusione, come poteva non trovarsi necessariamente a mal partito l’impero romano, come in effetti si vede che è accaduto?» (or. 5,41).
Ecco l’enunciazione del criterio fondamentale con cui la chiesa si rapporta alla politica ieri come oggi: il primo e più importante fattore di cui tiene conto per valutare un governo è se le garantisce o meno la libertà.
Rispetto a questo, non conta nulla che chi governa sia una brava persona e un efficiente amministratore. A molti oggi (forse anche tra i cristiani) questo potrebbe sembrare un criterio parziale ed egoistico. Non lo è affatto, perché la chiesa non esiste per se stessa, ma unicamente per far conoscere Cristo agli uomini, dunque la libertà della chiesa è libertà, per tutti, di conoscere Cristo. E conoscere Cristo è il bisogno fondamentale di ogni uomo, nessuno escluso.