Ci si sente davvero piccoli e finiti davanti al mistero potente della vita che si impone con i suoi tempi e i suoi passaggi obbligati, soprattutto quando assume le forme della morte prematura che colpisce persone che ci sono care e a cui siamo stati vicini. È quanto è successo ora con Paola Vismara (1947-2015), che ci ha lasciato improvvisamente questo mercoledì 7 ottobre.



Docente stimata e autorevole di storia del cristianesimo nell’Università degli Studi di Milano; attivamente impegnata, da anni, nel mondo della ricerca, nell’insegnamento instancabile, nella partecipazione intelligente e solerte a tutti gli aspetti della vita accademica, Paola Vismara lascia a quanti hanno avuto modo di conoscerla l’esempio — non così facile e scontato — di una dedizione operosa ai compiti fissati dalle circostanze concrete dell’esistenza. Gli ideali e gli interessi più veri, infatti, o si calano nella fatica quotidiana del proprio destino nel mondo, o si riducono inevitabilmente a un abito retorico buono da indossare nelle parate dei giorni di festa.



Per Paola, la vocazione individuale si è strettamente intrecciata, fin dagli anni giovanili, con la dedizione spesa nella ricerca della verità storica, applicata alle forme di incarnazione della fede cristiana nelle pieghe molteplici del cammino della civiltà dell’uomo. 

Dopo i sondaggi iniziali sulla realtà del cristianesimo antico, approfonditi in riferimento alla figura magistrale di Agostino, il suo itinerario di studio l’ha spinta a proiettarsi verso gli sviluppi moderni del cattolicesimo di area italiana e in primo luogo lombarda, facendo di lei uno dei maggiori esperti della storia religiosa del secolo della grande crisi della coscienza europea: il secolo dei Lumi e delle Rivoluzioni politiche che hanno aperto la strada al nuovo ordine sociale del mondo contemporaneo.



L’ardua ipotesi di fondo che ha sorretto la linea principale delle sue appassionate indagini credo possa essere individuata nella tesi della “modernità” dell’opzione cattolica e, più in generale, di tutto il cristianesimo euro-occidentale, intesi come fattori decisivi del percorso che ha condotto fino all’esito, discutibile e controverso, del nostro presente.

La sua scelta di campo andava in senso esattamente contrario alle due opposte riduzioni tuttora largamente influenti. 

Da una parte era una scelta che oltrepassava il tradizionalismo schematico di chi, nel cuore della modernità, tende a vedere soltanto o in primo luogo le forze di rottura e di crisi: quelle che avrebbero progressivamente sbriciolato, fin dai tempi dell’ultimo Medioevo, l’impianto “ortodosso” di un cristianesimo globale, pienamente dispiegato e lucidamente consapevole, pilastro di un ordine religioso proiettato all’indietro in un passato ampiamente addolcito e in parte mitizzato, non senza cadute esplicitamente e sbrigativamente apologetiche. 

Sul fronte opposto, ed era questa la sfida più impegnativa, si trattava di ridimensionare le tesi laiciste, altrettanto unilateralmente progressiste, dei partigiani di un mondo moderno immaginato come il trionfo della secolarizzazione anticristiana; una secolarizzazione che, per farsi spazio nell’Occidente, ha dovuto legarsi a una lotta senza quartiere contro le forme culturali, le eredità sociali e i modelli etici plasmati dalla lunga vicenda plurisecolare del connubio tra società umana e mondo cristiano, da cui, invece, era stata dominata l’età precedente la nascita del nuovo Prometeo-individuo autonomo, padrone del proprio destino e creatore della pubblica felicità trasportata dal cielo sulla terra della vita profana.

Paola Vismara ha cercato di mostrare che la coscienza religiosa nella storia dell’Occidente moderno non si è dissolta trasformandosi nel relitto archeologico di un mondo beato che noi abbiamo perduto. Essa è stata, al contrario, una delle forze che hanno contribuito alla genesi stessa, al primo abbozzo e anche al graduale sviluppo dei lineamenti della modernità: al punto da influenzarla dall’interno in modo potente, con una radicalità indiscutibile, anche quando le forme tradizionali di quella coscienza hanno cominciato a essere sempre più diffusamente contestate, e i frutti o conseguenze operative, creatori di una civiltà complessiva dell’uomo in rapporto stabile con il divino, sono stati staccati dalle loro premesse fondative, immaginando di conservare l’eredità storica della civilizzazione di matrice cristiana — il suo guscio esterno etico-politico-culturale — scorporandola dal grembo che l’aveva fecondata e per lunghissimo tempo nutrita.

Di questo densissimo intreccio sotterraneo, anche dialettico e spigoloso, tra senso cristiano del mondo e destino dell’uomo moderno, Paola Vismara ha scandagliato le punte intellettuali più qualificate, confluite nelle metamorfosi del pensiero teologico e nei dibattiti che, sul filo del tempo, si sono accesi intorno al modo più corretto secondo cui declinare nella vita il contenuto oggettivo del dogma professato. Dalla teologia colta e dalle controversie dottrinali il fiume dell’alimentazione religiosa dell’esistenza si è poi declinato nei modelli di spiritualità, nella fioritura dei carismi di santità, nelle vette impervie della mistica e della ricerca della perfezione religiosa, fino a travasarsi nelle forme dell’oratoria sacra copiosamente elargita dai pulpiti, nella pedagogia capillare dei collegi, dei seminari, delle scuole di catechismo, nelle confraternite che raccoglievano folle copiose di umili fedeli. E dallo spazio delle chiese, della liturgia, dei rituali collettivi, la fede animata dal suo cuore antico è arrivata a rendersi a tutti accessibile attraverso la scuola di una pietà adattata alla vita dei più semplici, via via conciliata con gli impegni materiali della famiglia e della condizione domestica, con il sacrificio del lavoro, con la realtà dello “stato di vita” abbracciato dal singolo battezzato. Sui volti più nascosti e diffusi di questa devozione impastata con la materialità di una vita sociale condivisa forse Paola Vismara ha scritto alcune delle sue pagine più originalmente significative. 

Le tempeste delle rivoluzioni e l’ingegneria sociale dei riformatori delle epoche a noi più vicine, soprattutto dal tardo Settecento in poi, hanno perseguito il disegno di spianare questo mondo devoto tradizionale, ostinatamente osservante, attaccato alle sue pratiche antiche. Ma anch’esso covava il fuoco vivo che aiutava a tenere desto il desiderio di quell’assoluto senza di cui il mondo umano si scopre oggi più povero e disorientato, pur nell’opulenza dei mezzi materiali di cui dispone.