La prima raccolta delle Opere di Kierkegaard in lingua italiana usci a cura di padre Cornelio Fabro nel 1972. In essa il Don Giovanni (1843), titolo in breve del saggio appassionato di Kierkegaard sugli Stadi erotici immediati ovvero il Musicale erotico, dedicato al Don Giovanni di Mozart (1787) non venne incluso. Così come escluso dalla raccolta fu anche Il diario del seduttore (1843), l’opera semi biografica con la quale Kierkegaard catturava e allo stesso tempo respingeva le attenzioni della sua Copenaghen, la “cittaduzza” dove scelse di vivere nonostante vi si trovasse a suo agio non più di un pescecane in laguna. L’immagine del pescecane è quella utilizzata da Kierkegaard per indicare la peculiarità della sua dialettica che egli aveva imparato dal padre prima ancora che dall’amato Socrate e dall’odiato Hegel. Essa consisteva nel ribaltare all’ultimo l’argomento dell’avversario dopo averlo favorito nell’esporlo e dunque nell’esporsi. “Il pescecane che vuole afferrare la preda deve rovesciarsi sul dorso poiché tiene la bocca sotto il ventre; il suo dorso è scuro il suo ventre argento. Spettacolo magnifico vedere questo cambiamento di colore che alle volte getta dei bagliori così vivi da far quasi male agli occhi e la cui vista non di meno dà tanto piacere (Diari, 1834-1855)”. Nella stessa rete dialettica di lusinghe e respingimenti, di blandizie e cattiverie Kierkegaard aveva catturato, seducendola spiritualmente, per poi disfarsene con religioso disprezzo, la giovanissima fidanzata Regine Olsen, eminente rappresentante della società danese nella sua qualità di figlia del primo ministro.
La scelta di Fabro lasciò libero spazio all’editoria laica che si fece un vanto di far conoscere al grande pubblico le opere giovanili di Kierkegaard. La scomposizione poi della cultura italiana in appartenenze politiche, così di moda in quegli anni, favori anche la canonica ricapitolazione dell’opera di Kierkegaard in parti a sè stanti, dialetticamente contrapposte: la parte estetica e quella religiosa, mediate dalla cerniera dell’etica (protestante e capitalistica). La recente rivisitazione delle Opere di Kierkegaard grazie alle nuove traduzioni (in corso) dei Diari e delle Carte sta favorendo un nuovo approccio all’autore danese che propone un raccordo più coerente e coeso degli “stadi” della sua opera. Nel Don Giovanni Kierkegaard chiarisce questo aspetto a partire dalla sua originalissima analisi del desiderio nell’Opera di Mozart articolato in desiderio sognante (il Paggio Cherubino delle Nozze di Figaro, 1786), desiderio cercante (il Papageno del Flauto Magico, 1791) e desiderio desiderante (il Don Giovanni dell’opera omonima, 1787): “Se del resto in precedenza ho usato, e in seguito persisterò a usare l’espressione: stadio, non bisogna dedurre che ogni singolo stadio esista a sé stante, l’uno fuori dall’altro. Potrei forse utilizzare l’espressione metamorfosi” (p. 81).
Tracce di questa “metamorfosi” si trovano sparse nel testo, come quando Kierkegaard allude a una qualche somiglianza tra Cristo e Don Giovanni, per il quale “dovendo proporre un’età allora proporrei 33 anni…” (p. 120), o come in quest’altra chicca dialettica (non l’unica!) che da sola vale il prezzo del libro: “Asserire che il cristianesimo ha introdotto la sensualità nel mondo, pare arditezza rischiosa. Ma come si dice: arditezza rischiosa mezza vittoriosa (…). Che la sensualità esistesse prima del cristianesimo sarebbe naturalmente una obiezione molto stupida, poiché è ovvio che ciò che viene escluso precede sempre ciò che l’esclude così come in un altro senso, venga a essere solo mentre viene escluso” (pp. 64,65).
Attraverso la sua contorta negazione del piacere e della sensibilità, cifra della sua “produzione religiosa”, Kierkegaard rimane pervicacemente avvinghiato ai temi che, almeno nella sua giovinezza, gli lasciarono intravvedere una possibile via alla soddisfazione nella forma di un godimento gaio, ovvero impenitente, anche nel senso liberatorio di senza pena. Il tentativo merita considerazione perché documenta la ricerca di una via (mai trovata da Kierkegaard) verso una soddisfazione “pura” nel senso di lecita e non “diabolicamente”, per usare il suo linguaggio, iscritta fin dall’inizio nella trasgressione. Da lì in avanti nello scenario culturale europeo e mondiale si sarebbe aperto un bivio formato da una via indirizzata alla vita gaia (dapprima riservata ai libertini più sfrontati e coraggiosi e successivamente sempre più diffusa in modo conformistico), e sul lato opposto la via di una ri-valutazione del corpo, dei suoi moti (a soddisfazione) e del pensiero delle leggi di essi. È il campo di lavoro iniziato da Freud e pazientemente coltivato da Giacomo B. Contri attorno al (alla legittimità del) potere del soggetto: tutto ciò che il soggetto può intraprendere per la sua e l’altrui soddisfazione. In perfetta coerenza col pessimismo luterano, Kierkegaard rispose negativamente, sottraendo ogni legittimità al potere non solo del singolo, ma anche dei soggetti storici: Stato, Chiesa, partiti, movimenti eccetera. Ma senza alcun potere sulla propria vita non resta che l’abbandono: o a una grazia irragionevolmente “sperata contro ogni speranza”, o al libertinismo vintage comandato dalle attuali convenzioni sociali. Ecco il nuovo aut-aut. Naturalmente apolitico, fede o godimento da consumersi rigorosamente in privato. Era vero ciò che leggevo sui taze bao in università: “Chi ama la res publica avrà la mano mozzata” (Cz. Milosz).